La brevità è sinonimo d’intelligenza, competenza e saggezza. In letteratura, soprattutto, saper utilizzare uno stile diretto e pulito per trattare concetti profondi e tramutare l’astratto in concreto e comprensibile, è uno degli esercizi di scrittura che richiedono più impegno e costanza. Talvolta, però, essere brevi, concisi e saper arrivare dritto al cuore della questione, è una dote naturale che, in quanto tale, è in grado di rendere la comunicazione più naturale ed efficace. Mi piace immaginare, proprio perché non possiedo questo dono, che chi con poche parole (e semplici, soprattutto) riesce a spiegare materie complesse abbia successo in qualsiasi situazione, professionale o privata. Perché dal mio punto di vista chi sa essere diretto ha, in conseguenza, la capacità di non considerare il superfluo e tutte le distrazioni che esso comporta. Una capacità di interpretazione invidiabile, a mio avviso.
Giulia Viganò, nella sua raccolta di racconti “Il gioco non vale la candela”, pubblicata da Scatole Parlanti, all’esordio nel mondo editoriale, è riuscita nell’intento di raggiungere il concreto con una brevità intensa, fresca, sofisticata e originale.
Nei suoi dieci racconti, la Viganò spazia tra i più grandi temi della storia dell’uomo, avvicinando il lettore a domande che si rincorrono tra loro, in ogni esistenza, e credetemi quando vi dico che ce n’è davvero “pertuttigusti”. C’è la solitudine, la rassegnazione, la passività e la rinuncia, l’esasperazione della perfezione, il riconoscimento dei propri difetti, la delusione, la lotta per farsi accettare, le paure e le incomprensioni. Il tutto su una base narrativa solida e concreta, quella della realtà quotidiana, dell’ambiente cittadino, di noi, esseri umani in costante ricerca di qualcosa che tende a sfuggire, sempre più lontano.
L’ambito culinario, in conformità al testo, è una luce che lampeggia tra i messaggi trattati. C’è il solito e confortante bicchiere di vino, l’immancabile premio che, in questo caso, riscalda e rinfresca un gruppo di pescatori (meno uno), al ritorno dalle fatiche della notte; c’è l’abitudine, quella che altrimenti non è giorno, della colazione italiana a base di caffellatte, pane tostato e marmellata, che esprime il senso di casa, quello più intimo, quel “rito”, come lo definisce l’autrice, che è, per molti, un perno su quale ruotare la propria giornata, nonché esistenza. C’è un bambino che ha gli occhi di un artista e aspetta caramelle e cioccolata per saziare la sete di dolcezza che nasconde un desiderio di attenzione e affetto; c’è una donna che si lascia invadere dalle bollicine fresche di un calice di vino in perenne lotta contro il tempo, quell’acerrimo nemico che nessuno ancora ha capito come sconfiggere; ci sono due uomini d’affari troppo occupati da se stessi, davanti a un Martini, per accorgersi che la candela davanti a loro emette luce non certo per creare un’atmosfera romantica; c’è un uomo che vorrebbe del Porto, un’ultima volta, per tornare a godere di quei piaceri forti e liberi di un tempo passato troppo in fretta e che gli ha lasciato addosso delle cicatrici evidenti. C’è una perfetta padrona di casa in lotta con le sue stesse aspettative che serve tartine, bruschette, maionese (fatta a mano, ovviamente) e delle crespelle con salsa di funghi così dorate che sembrano luccicare, la vigilia di Natale, una sera che non è come tante; c’è l’acqua, infine, il nostro oro trasparente, quello che ci tiene in vita e che, nell’ultimo racconto, non per ordine di importanza, amplifica l’ambiguità della situazione.
“Il gioco non vale la candela” è un valido esempio di libro per riflettere e per guardare gli altri come se fossero lo specchio di noi stessi, con le stesse paure, ambizioni, sogni e debolezze. Inoltre può essere inserito in quella categoria di libri che offrono un validissimo spunto per accettarsi e per smettere di lottare contro le prove che la vita ci presenta.