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“Leone” di Paola Mastrocola, Einaudi Editore

Certamente conoscete il detto “pane per i tuoi denti” e vi sarà capitato di sentirlo pronunciare da nonni o zii, in molteplici occasioni. Il detto ha un significato semplice, non banale. E’ una massima d’altri tempi, soprattutto per i più giovani, eppure, nel mio caso, nasconde un fascino che perdura e che, mi auguro, resterà in eterno. Il pane è un amico, un simbolo, un elemento indispensabile; è una liaison che lega tradizione e innovazione, gusti ed esigenze. Il pane è per tutti i denti ed è una gradevole scoperta per chi, per troppo tempo, ha creduto di poterne fare a meno. Il pane è vita, semplicità, benessere.

Leggere “Leone” di Paola Mastrocola, edito da Einaudi, è stato come affondare nelle dolci pieghe del pane appena cotto che sprigiona aromi consolatori capaci di sostenere emozioni e suggestioni.  

Leone è un bambino: dolce, solitario, emblematico. Impossibile non amarlo.

Katia è la sua mamma: dolce, sola, emblematica. Impossibile non amarla.

E, la faccenda del pane come simbolo di unione ci introduce nell’ambientazione e nel cuore del romanzo. Per il papà di Leone, infatti, il massimo (e unico) momento di intesa padre-figlio è una cena al fast food. Davanti ai famosi panini imbottiti e a una porzione di patatine fritte, il rapporto è volubile, inattivo, come in attesa di un condimento che leghi gli ingredienti.

Per Katia il cibo è la rappresentazione dei suoi dubbi di madre, davanti a un piatto di spaghetti che non vanno giù; è l’attenzione viscerale che riversa su un piatto di pastina e una fettina di carne; è la voglia di libertà e normalità che solo un buon gelato in compagnia di suo figlio le può regalare; è il ricordo di quelle sere in cui sua madre le portava un bicchiere di latte caldo, prima di dormire; è l’impegno per servire un pranzo di Natale che tale si definisca, quando imburra tartine, adagia fette di salame e compone un’insalata di mare. Per Katia, il cibo è un veicolo che la riporta nel suo passato di figlia, quando sua madre, il pomeriggio della vigilia di Natale, stendeva la sfoglia per gli agnolotti che avrebbero profumato la tavola; è il ritorno a essere un esempio di famiglia, non convenzionale e variabile, quando mette in tavola fettine di carne; è amicizia quando, con le amiche, si gode torcetti e caffè. Ma, soprattutto, è il profumo che una cesta di renette emana e che la spinge a vedere ciò che fino a quel momento ha ignorato: il senso più profondo di appartenenza, perché chi possiede ricordi non è mai davvero solo.

Per Leone, per la sua fanciullezza, e per quel suo modo di entrare nel mondo in punta di piedi, la sensazione è esattamente la stessa. I ricordi sono gli stessi, gli ingredienti anche (seppur con qualche dose di patatine fritte in più); le promesse e i timori sono così vicini a quelli di sua madre che è strano rendersene conto. La pizza e le merendine confezionate sono il mezzo più veloce per arrivare al cuore degli amici, per farsi accettare e per diventare, finalmente, parte del gruppo, ma l’animo resta là, incagliato tra gli aromi della pasta sfoglia appena cotta e dal ripieno degli agnolotti che si sprigionava in tutta la casa, quando la nonna li preparava con lui. E poi c’è la mancanza, quel sentimento che attanaglia e che resta inspiegabile agli occhi di un bambino.

“Leone” è un piccolo miracolo. È una lettura affascinante, piena, simbolica. Il narratore è una voce che ricorda un angelo custode, sincero, diretto e autentico. L’effetto mistico è una vena che pulsa in ogni pagina, senza sbiadire la trama, né i personaggi: genitori, bambini e nonni che, ciascuno con la propria fragilità e forza, rappresentano una toccante immagine di società che ha il dovere di ritrovare se stessa, attraverso la semplicità e la gioia di appartenersi.

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