Una squadra nasce quando l’obiettivo diventa un bene comune da difendere o un traguardo da raggiungere. Il team è la casa all’interno della quale, nel bene o nel male, l’individuo abita e, con impegno e dedizione, la stessa può diventare una fortezza dentro la quale la sicurezza di appartenere diventa un premio irrinunciabile.
Annalisa Scaglione, nel suo “La partita va giocata” edito da Scatole Parlanti, parte proprio da questo presupposto quando ci introduce Crescobene, un ridente paesino stretto tra cielo, mare e terra, nel quale la squadra di calcio sta per affrontare un capitolo che non avrebbe mai voluto leggere: il parroco, Don Donato, annuncia la vendita del terreno di gioco sul quale sono stati raccolti successi e sconfitte ma che, nonostante tutto, resta il punto focale dell’intera comunità.
La quiete cittadina evapora tra pioggia e vento, cucine che non smettono di sfornare piatti e pensieri turbinanti, perché è evidente che non si tratta di una mera questione sportiva: la comunità intera sta per vivere un dramma tra ritorni e ricatti, amori e rancori, denaro e potere, fede e solidarietà.
E, in questo, ogni elemento culinario è incluso alla perfezione, per alleggerire o espandere le vicissitudini dei personaggi, tutti legati al bene comune: mantenere vivo il sogno di un intero paese.
A casa De Bellis se non fosse per la governante, probabilmente non ci sarebbero che stoviglie antiche e lussuose perché Isotta, fasciata nei suoi tubini Chanel, possiede molte qualità ma non la mano determinata che serve in cucina. E’ la Doris che non fa mai mancare un arrosto con patate, la domenica, per il pranzo. Aldobrando, il capofamiglia, ama il Brunello, il dolce aroma dei sigari, il suo impegno a mantenere alto il livello economico della famiglia e della comunità. Annabella guarda i genitori con stima e curiosità certa che i suoi cereali siano più “indicati” per una colazione frugale e dietetica mentre suo fratello Isacco predilige i krapfen convinto che gli zuccheri alla mattina rendano più forti e concentrati, in campo soprattutto. Annabella inizia la sua ricerca, circa il mistero che incombe sulla piccola cittadina, e si aspetta un aiuto concreto da una delle donne della comunità quando finge di dover preparare la migliore bavarese al limoncello di sempre e, ancora, riemerge da quelli che credeva ostacoli, quando si lascia convincere ad assaggiare i frisceu e si rende conto di quanto siano buoni.
Nella casa del Don, quell’uomo buono e gentile, il punto di riferimento che ogni essere vivente dovrebbe incontrare, almeno una volta nella vita, zia Marta occupa il posto di gran prestigio: gli rende la vita più leggera, preparandogli caffè mattutini, una super carbonara e il minestrone settimanale. Lui, senza indugi, funge da vetta, nella vita sua e in quella di Michelangelo, l’unico figlio di Marta. E proprio lei, Marta, che sforna focacce alla salvia per affrontare il gruppo di donne che temono lei possa sapere molto più di ciò che vuole ammettere, vista la sua vicinanza al Don, che prova una punta di gelosia, quando si accorge che il suo figliolo non ha mangiato il pranzo che lei solitamente prepara ma una torta di bietola fatta male, col bordo di pasta troppo alto.
Per Michelangelo, invece, le questioni sono tante, aggrovigliate, complesse. Ci sono segreti che non ha mai voluto chiedere e una sicurezza che inizia a vacillare. E’ consapevole di ciò che sta accadendo, quando ordina tramezzini con tonno e insalata, davanti alla dolce Annabella e, lo è ancora di più quando la invita a mangiare la pizza – vegetariana per lei – con la scusa di voler capire qualcosa in più di quel pasticcio nel quale la squadra è caduta. E, ancora, si sente lontano ma vicino, forte di andare ma voglioso di restare, quando pensa al sapore denso del ragù di sua madre che, è certo, non ritroverà mai, in nessun luogo del mondo.
A casa di Alba, la tavola è un affare serio, soprattutto nei momenti difficili. Per suo figlio – e unico uomo di casa dalla morte prematura del marito – prepara il tavolo della cucina a festa con marmellata di fichi casalinga, caffè, rooibos rosso, burro e pane fresco e, prima di iniziare il giro di telefonate per indagare l’indagabile, anticipa i pasti del giorno preparando il roast beef.
E poi c’è il Mister, che coi ragazzi ci sa fare e che ogni tanto perde la testa e la ragione a causa della solitudine che gli è caduta addosso e che ancora non ha del tutto capito come gestire. Lui e i ragazzi, Michelangelo soprattutto, affogano paure e sentimenti tra le pieghe delle sfogliatelle appena sfornate, nelle mattine in cui tutto sembra troppo difficile per essere vero. E, nei momenti di sconforto, quando il passato bussa con prepotenza alla porta, senza che lui sia davvero pronto ad affrontarlo, si accanisce sulla pizza, nella speranza che la magia dell’impasto lievitato si porti via le sensazioni sbagliate che sta provando, dopo la notizia della vendita del campo da gioco.
Il viaggio a Crescobene è un vagare tra torte di mele e cupcakes che servono da spinta per affrontare problemi e segreti, è il profumo della focaccia, quell’inconfondibile dolce-salato che nasce con il preciso intento di rassicurare e curare, è riconoscenza e appartenenza a un luogo per il quale vale la pena lottare.
La capacità di trasformare semplici vicende in grandi romanzi è uno dei talenti più ricercati e preziosi, in letteratura. Sono poche le penne che riescono in questo intento, senza sbiadire la trama e soprattutto garantendo una buona suspence in tutte le fasi del racconto e, in questo, Annalisa Scaglione si impone con grande maestria, lasciando qua e là, anche piacevoli punte di ironia pungente e messaggi profondi da cogliere. La lettura scorre piacevole, arricchita da dialoghi leggeri e mai banali; i personaggi sono costantemente in equilibrio all’interno della scala narrativa e questo rende “La partita va giocata” un romanzo dolce e forte al tempo stesso, che avvicina il lettore e lo conquista, fin dalle prime battute.