«Smetti per favore con quella canzone!»
Mia moglie era nervosa, come talvolta le capitava quando doveva occuparsi la domenica pomeriggio delle faccende di casa rimandate durante la settimana. Le dava fastidio tutto, compresa nostra figlia che canticchiava una canzoncina imparata a scuola – in effetti era una lagna: terra di betullaaaa casa del castoroooo, soprattutto quel ritornello senza senso bumbidiaidibum; chissà a quale repertorio apparteneva, meglio non indagare.
L’aveva ripresa con un tono brusco, mentre si organizzava con catini, strofinacci e pochi nauseabondi detersivi. L’apparizione dell’armamentario segnava l’inizio di quelle che con un sorriso amabile chiamavo grandi manovre; risultavo irritante, perché il mio senso dell’umorismo non era colto nelle sue sfumature. Ripiegai quindi il giornale che stavo leggendo e raggiunsi la mia “Ninin”. Diligente ma imbronciata, riponeva i suoi giocattoli nella cesta di vimini in un angolo del tinello:
«Papà, la maestra di canto ha detto di impararla bene» si giustificò quasi piangendo.
«Parlerò con la mia collega perché almeno stabilisca quante volte al massimo la devi ripetere!» replicò ancora mia moglie stizzita.
Con il dito sulle labbra, accennai a mia figlia di tacere e sollevai le spalle per suggerirle di non badare al tono della mamma. Quando le strizzai l’occhio, sorrise e mi venne vicino. Pensai: «Meglio uscire». Mi affacciai alla porta del cucinino e chiesi a mia moglie infilata sotto il lavello: «Ti dispiace se usciamo?» Ricevetti la risposta che avevo immaginato: «Ma no, anzi! Così finisco prima e meglio».
«Dove andiamo, papà?»
«Sorpresa» risposi.
Sul pianerottolo incontrammo il dottor Marcucci che, in pantofole ma con la borsa medica in mano, rientrava forse da una visita a un condomino. Ci salutammo e lui chiese alla piccola dove andasse: «A spasso con papà – rispose soddisfatta – e mi sono coperta bene, così lei Dottore non mi deve guardare le tonsille». Ridemmo di gusto. La mia “Ninin” era così, spontanea e birichina, curiosa, allegra. Cercavo di plasmare il suo gusto sul mio amore per il bello, quindi appena potevo la portavo a visitare chiese, mostre o musei, ma quel pomeriggio avevo deciso di regalarci un momento più lieve. Mentre raggiungevamo la fermata del tram sotto casa immaginavo il suo stupore allo svelarsi della sorpresa; mi meravigliai io invece quando mi chiese: «Prendiamo la metropolitana, papà? A scuola qualche giorno fa la maestra ha detto che l’hanno appena inaugurata: linea 1 rossa. Mi piacerebbe vedere com’è». Saliti sul tram che ci avrebbe portato quasi a destinazione, le spiegai per quale motivo fosse scomodo raggiungere dalla nostra via Pacini la prima fermata utile a Piazzale Loreto e mi feci raccontare dell’inaugurazione di cui avevo letto sul Corriere della Sera. Mi disse della signora che aveva tagliato il nastro, dei Martinitt schierati a una fermata, non ricordava quale, del cardinale e del sindaco che erano entrati passando attraverso quei “cosi di metallo” i tornelli, il sindaco era lo stesso che era venuto a scuola. «Dev’essere importante la mia scuola» aggiunse.
Sorrisi delle sue ingenue deduzioni ma mi resi conto di come assorbisse informazioni e umori che la circondavano. Sperai non avvertisse la preoccupazione che mi tormentava. Da quando ero diventato padre, ero passato da uno spavento all’altro ogni volta che la guerra fredda si riscaldava: e l’Ungheria e il Medio Oriente e il muro di Berlino; ora il Vietnam. A parte questo – a parte per modo di dire – tenevo d’occhio la situazione economica. Speravo di sbagliarmi, ma insegnavo economia politica, non avevo molte possibilità di errore e da un anno ormai i segnali di crisi lampeggiavano ad ogni ragionamento. Erano parecchi, solo il crescere dell’inflazione metteva a dura prova i nostri sacrifici. Avevamo due stipendi, mi rassicurava mia moglie; era vero ma le spese erano tante e non volevo ricorrere al pagamento a rate tanto in voga: avevamo appena acquistato il frigorifero, mia moglie avrebbe voluto anche il televisore però si era deciso di aspettare Natale. Chissà se sarei riuscito ad acquistarlo, forse con la tredicesima e qualche ripetizione in più, anche se ormai iniziavano a scarseggiare gli studenti bisognosi di recuperare voti migliori. Il nostro tram stava arrivando in piazza Cavour, si vedevano gli archi di Porta Nuova; decisi di passeggiare un poco. La giornata non era fredda e l’aria meno fuligginosa del solito, nonostante il cielo grigiastro.
«Quando scendiamo, papà?»
«Vieni, alla prossima. Attaccati bene, che frena».
«Davanti all’Alemagna! Allora facciamo merenda!» esclamò scendendo. Scintillavano quei suoi occhi di golosa. E pure i miei, al pensiero di una cioccolata calda con un ciuffo di panna montata e due mignon di pastafrolla con le more glassate; ma le risposi: «Non è questa la sorpresa e poi lo sai, sono contrario alle merende, rovinano l’appetito. Vieni, attraversiamo al semaforo».
Camminò, con la testa rivolta all’indietro, lo sguardo alle torte in vetrina: tre file disposte su altrettanti ripiani nascosti da una stoffa colorata. Mi fermai e la lasciai osservare. Una signora impellicciata con un cappello a turbante uscì in quel momento dalla pasticceria, infilandosi i guanti e guardandosi intorno come se cercasse qualcuno; ci vide e ci sorrise. Ricambiai con un cenno, sollevai appena il cappello. La raggiunse un signore che la prese sottobraccio e rispose al mio saluto. Attraversarono con noi e presero a sinistra, verso San Francesco da Paola, la chiesa di via Manzoni in cui entravo spesso quando ci passavo davanti, catturato dalla forma a contrabbasso della struttura e dagli interni barocchi, unici in centro a Milano. Alla mia piccola non piaceva, diceva che era pesante.
Anticipai il suo desiderio di guardare la vetrina di «noè», fornitissima come sempre di giocattoli di ogni tipo, ma mi accorsi che non era poi così interessata:
«Non ti piacciono?» chiesi.
«Sono belli, ma lo sai papà cosa desidero più di ogni giocattolo».
Il tono era rassegnato e provai una fitta al cuore, ma non si poteva: «Lo so, Ninin, ma sai anche tu che per ora non si può prendere un cucciolo…». Non mi lasciò finire: «Passiamo almeno da quel negozio che c’è là? – indicò con la mano e la ripresi, non era un gesto educato – Li guardo in vetrina, solo per poco, ti prego». Era domenica, il negozio chiuso senza cuccioli: la convinsi ad affrettare il passo. Prendemmo via Monte Napoleone e non potei fare a meno di pensare al giorno in cui nel 1954, dieci anni prima, avevo trovato quei due quadri. Li avevo visti, grandi come un libro, appoggiati al basamento della colonna che ornava un portone, e non mi era parso vero. L’uomo che provava a venderli conservava sotto abiti più che logori un’aria signorile antica, superata. Gli avevo chiesto di poterli osservare da vicino; le firme, che conoscevo, mi erano parse autentiche e mi ero informato sul prezzo, solo per curiosità. Non avevo di certo denaro sufficiente, ma quell’uomo, dopo avermi guardato come se avesse compreso che li avevo riconosciuti e apprezzati, mi aveva risposto quasi in un sussurro: «Quel che può darmi» con uno struggimento tale che mi ero tenuto in tasca giusto il necessario per il biglietto del tram ed ero tornato a casa con i quadri. Una follia che mia moglie non aveva compreso. E la capivo, in quel periodo avevamo appena firmato per l’acquisto della nostra casa, ma erano bellissimi da lasciare alla mia Ninin che li avrebbe amati come me.
«Oh, guarda che ghiottonerie!»
La mia esclamazione qualche passo più avanti fu proprio spontanea. La vetrina del Salumaio di Monte Napoleone era per me un invito a nozze. Prelibatezze dai prezzi inavvicinabili che ammiravo con la scusa di mostrarle a mia figlia perché ne imparasse nome e provenienza. Ci divertivamo anche a memorizzare i nomi dei piatti di elaborata gastronomia da suggerire alla mamma come ricette da sperimentare. Guardammo insieme quelle architetture di taleggio, bitto, provolone, forme di grana aperte, forme intonse che reggevano oblunghi vassoi di tome, castelmagno e robiole, e sotto ciotole di mozzarelle e caciocavallo. Nell’altra vetrina un cartello spiegava che nel “mese francese” alcune specialità erano in offerta: roquefort, brie, camembert… «Dai, andiamo» le dissi prima che mi domandasse la traduzione di ognuno di quei nomi e come facevano a stare al fresco i formaggi se nel negozio non c’era nessuno a metterli in frigorifero. Sapevo che si interrogava su quale fosse la sorpresa e mi inteneriva il modo in cui si affidava a me; pareva quasi smarrita: in una chiesa no, al Poldi Pezzoli – il nostro museo preferito – nemmeno, dove la stavo portando?
Ci fermammo davanti al cinema Rivoli quando lo spettacolo del pomeriggio stava per iniziare.
«Mary Poppins? Andiamo davvero a vedere Mary Poppins? Grazie papà!!»
Era come avevo letto: un film sulla gioia di essere bambini e io tornavo bambino con lei. Uscimmo divertiti e felici, la mia “Ninin” quasi saltellava di gioia ripensando alle immagini che più l’avevano catturata: «Bert che suonava tutti gli strumenti…e poi ballava con i pinguini…e la corsa con i cavalli. E quando con Mary scivolavano sullo stagno appoggiati alle tartarughe? E il tè sul tetto!! Tutti neri come gli spazzacamini. Piacerebbe anche a me cantare con un pettirosso. Le castagne!»
«Non c’erano castagne nel film, almeno mi pare».
«No papà, c’è un signore che le vende, guarda là».
Era avvolto nella nuvola di calore e fumo che saliva dal pentolone. Con la punta delle dita annerite fuori dai guanti di lana spostava qualche castagna per raggiungere il giusto punto di cottura, poi strofinava le mani una sull’altra, si chiudeva il bavero attorno al collo e si guardava intorno cercando di scovare qualche goloso.
«Cosa sono queste, papà?»
«L’è un filsòn, tousa. T’el voeret?» le rispose il caldarrostaio. Dall’uso del vocabolo intuii che era come me, milanès ariùs, cioè immigrato dalla bassa. A Milano, infatti, i filsòn li chiamavano firunàt. Scambiai due parole in lingua mentre ne acquistavo uno: quando io e mia moglie eravamo bambini queste collane di castagne secche, infilate con l’ago da donne e bambine per racimolare qualche soldo, erano un regalo goloso e prezioso. Pensai che a mia moglie potessero piacere.
La mia “Ninin” entrò in casa sventolando il sacchettino:
«Mamma, mamma, guarda che bella, è per te!»
La trovò seduta al tavolo del tinello, a correggere i compiti dei suoi alunni. Aprì il sacchetto:
«Un filsòn de ciuchin!»
«Ma no, sono castagne!»
«Quando sono secche, nel nostro dialetto si chiamano ciuchìn. Te le preparerò presto». Mi ringraziò, con un sorriso stanco e si informò: «Allora, dove siete stati? Cosa avete visto di bello?»
«Un film bellissimo, mamma. Mary Poppins, pieno di animali e di canzoni fantastiche. Senti, te ne canto una: Supercalifragilistichespiralidosooooo».
Nessuno di noi due ebbe il coraggio di interromperla.
«Dove sono? Che ore sono?»
«Le nove di sera. Sei in ospedale. Come ti senti, papà?»
«Meglio, forse; ma che anno è?»
«1994, perché?»
«Forse ho sognato. Pensavo a quando eri piccola e ti ho portato a vedere Mary Poppins, ti ricordi?»
Nota biografica dell’autrice:
Amelia Belloni Sonzogni è nata a Milano, dove ha studiato, vissuto, lavorato come insegnante di lettere nella scuola media pubblica e collaborato come storica alla cattedra di Storia contemporanea dell’Università degli Studi di Milano presso la quale si è laureata. Ha pubblicato numerosi saggi sulla storia di Milano, sulla storia dell’assistenza e previdenza, alcune monografie su enti privati e pubblici, biografie di uomini politici lombardi ed una pressoché unica storia del Prix Italia, concorso per radio, tv, web patrocinato dalla Rai, che si svolge ogni anno dal 1948 (per i dettagli www.ameliabellonisonzogni.it nella sezione I miei libri). Da qualche anno ha lasciato l’insegnamento, ma l’attività di ricerca è rimasta una passione. Si ritiene una privilegiata perché vive in modo molto semplice nel posto di mare cui è legata sin dalla prima infanzia, dove ha trovato il tempo e la dimensione giusta per dedicarsi alla scrittura.
Bood ha ospitato il suo libro “Io ho sempre parlato”.