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“Angeli e diavoli” di Miriam Donati – #boodracconti

È sempre stato di poche parole, ora sembra non averne quasi più.

Da quando è tornato lo sente solo bofonchiare un ’giorno al mattino e un ’notte alla sera. Durante la giornata solo rari comandi sussurrati quando lavorano uno accanto all’altro: «Passami la pinza legatrice. Stringi più forte. Stai attento!».

La campagna appare immobile, bloccata in attesa della primavera che verrà, intirizzita come le sue mani. A lui però il freddo piace. Appena arriva al vigneto per qualche attimo il canto degli uccelli si interrompe, poi riprende insieme al fruscio delle loro ali; prim’ancora di vedere il fuoco lontano, sente l’odore di bruciato e immagina il contadino che si sta scaldando le mani con gli sterpi strappati dal terreno degli interfilari. Aspira forte l’aria gelida che gli fa colare il naso ed è in pace. Ama lavorare all’aperto, solo, tra i filari, ma non disdegna nemmeno il chiuso della cantina. Aromi impercettibili di cannella e vaniglia mischiati al profumo del legno delle botti esalano l’ultimo respiro appena dopo il suo ingresso, coperti dal sentore di muffa che smorza ogni inquietudine.

E pensare che se n’era andato proprio perché la campagna gli faceva schifo.

Un’era fa.

Il Barba, come lo chiamano tutti, non si è mai visto al processo o in visita al carcere.

Nemmeno quando è uscito dopo cinque anni per buona condotta.

Ne avrebbe dovuto fare sette per una rapina finita male con il ferimento di una guardia giurata e meno male che lui non era armato, lo era solo Luigi e infatti è ancora dentro.

Sulla corriera, nell’ultimo tratto per arrivare al paese e poi a piedi sullo sterrato per raggiungere la casa colonica si era chiesto cosa avrebbe detto il Barba e se l’avrebbe accolto o gli avrebbe sbattuto la porta in faccia come si meritava.  L’unico incontro era stato tre anni prima al funerale della madre. Il profilo immobile del nonno non si era mai voltato a guardarsi intorno. Gli occhi alzati sopra le teste l’avevano appena sfiorato.

Il paese sembrava cambiato, più moderno, più ricco. Si era aspettato sguardi torvi o curiosi e invece al bar dove si era fermato per un caffè gli avevano sorriso, forse non lo avevano riconosciuto, ora portava la barba screziata di fili grigi anzitempo e i riccioli della madre si allungavano ai lati del viso. Dopo, si era avviato fuori dall’abitato ed era stato di conforto osservare che invece la campagna era rimasta la stessa, filari ordinati, campi coltivati con geometrica cura e frutteti di mela Pomella sullo sfondo.

Aveva bussato senza ottenere risposta, aperta la porta si era reso conto che la casa era deserta e il Barba infatti era arrivato insieme a Sancho solo all’ora di cena trascinando un sacco pesante di patate. Solo un cenno del capo e aveva apparecchiato la tavola dicendo: «Se ti fermi devi lavorare» e lui da quattro mesi lavorava tutto il giorno e non avrebbe mai pensato che tutto sommato gli potesse piacere così tanto.

Quando era piccolo quanto parlava invece il Barba, non smetteva mai e se smetteva lui faceva altre domande e così le parole messe insieme diventavano una lunga, meravigliosa storia sulla natura. Gli insegnava tutto quello che c’era da sapere sulle viti, sull’uva sultanina e lui lo seguiva sempre nei vigneti e giù in distilleria. Gli rivelava i trucchi del mestiere ereditati dal padre: come si distilla la grappa, come la si invecchia, come la si insaporisce, come si tratta l’uvetta. Gli raccontava della sua idea di iniziare una produzione di whisky usando l’orzo che già coltivavano. Con la germinazione dei suoi chicchi si poteva ottenere il malto che sarebbe servito per fare quel liquore. Aveva fatto persino un viaggio in Scozia bruciando i suoi risparmi e invece non se n’era fatto più nulla perché al ritorno, nel suo progetto non credeva nessuno e lo avevano costretto a lasciar perdere. Il Barba aveva concluso che avevano ragione, a ognuno la sua specialità e la sua era l’uvetta sotto grappa.

Sulla ricetta però manteneva il segreto con la promessa di rivelargliela alla maggiore età.

Venivano dai paesi vicini a chiedere la sua uvetta sotto grappa. Il Barba rifiutava sempre di venderla, in compenso però a qualcuno regalava uno dei preziosi vasi di vetro con gli acini immersi nel pregiato liquido trasparente e la leggenda del suo sapore particolare passava di bocca in bocca.

Ogni volta prima di chiudere ermeticamente i vasi, gli faceva assaggiare quegli acini gonfi e sugosi nonostante la madre fosse contraria ma il nonno insisteva, doveva imparare da subito, da piccolo, quando era il momento di travasarli e quando invece di riporli al buio della cantina. Tanto ci avrebbe pensato la verza a cena a curare l’eventuale ubriachezza, proprio come facevano gli antichi Romani. 

Sente battere i dodici rintocchi dal campanile in lontananza, col fischio richiama Sancho che non ha smesso per tutto il tempo di correre al limite del pometo, avrà senz’altro fiutato qualcosa e non vuole tornare, lo richiama più volte e finalmente si accompagnano verso casa.

Mentre pranzano il nonno chiede a che filare sia arrivato. Alla risposta la bocca del Barba si muove breve. Non capisce se abbia solo deglutito il boccone o sia stato un sorriso sghembo quello apparso per un solo istante. Bevono il caffè e il nonno, come suo solito, raccoglie col cucchiaino la densa goccia zuccherata dal fondo della tazzina e la gusta lentamente come se fosse l’ultimo desiderio espresso da un condannato.

Il gesto antico e ripetuto lo conferma nella certezza che sia arrivato finalmente il momento per riproporre la sua domanda di bambino, chiedere di rivelargli il segreto della sua ricetta e dove è finita la “parte degli angeli” degli ultimi vent’anni. Si lascia andare alle possibili risposte, immagina parole rivelatrici.

«Per il segreto calma… faremo insieme la prossima distillazione e l’immersione dell’uvetta e potrai vedere con i tuoi occhi tutti gli ingredienti. Per la “parte degli angeli”, la leggenda dice che è stata sacrificata agli dei greci o romani, oppure che è andata in cielo a ubriacare i cherubini, un tributo concesso ai nostri angeli custodi. La realtà invece è che la parte persa di distillato a fine invecchiamento è traspirata dalle botti. Io però ho provveduto in molti casi al travaso ricolmandole. In altri ho preferito l’affinamento lasciando sbronzare più cherubini. Adesso lascio a te la scelta come continuare.»

«Penso che ricolmerei man mano, c’è già il demonio che pretende la sua quota»

«E questa dove l’hai sentita?»   

«Ho letto tanto mentre ero in galera, cercavo di scoprire il tuo segreto e invece ho scoperto altro. Per esempio il “taglio del diavolo” che è il distillato assorbito dal legno delle botti a seconda della qualità del legno usato. La scoperta più sorprendente però è che soprattutto volevo tornare, ero sicuro che mi stessi aspettando.» 

«Sveglia! Mi stai ascoltando o sogni ad occhi aperti come sempre? Finirai domani al vigneto, adesso andiamo giù in cantina, è venuto il momento di mostrarti una cosa.»

La voce del Barba lo riscuote. La realtà sono le sue parole brusche, ma il tono, no, non l’ha immaginato. C’è un che di affettuoso sotto sotto, sufficiente per sperare. 

Nota biografica dell’autrice:

Miriam Donati, nata a Milano, abita da sempre a Garbagnate Milanese. Ha lavorato come Area Manager in aziende commerciali e di impiantistica svolgendo l’attività lavorativa spesso all’estero, organizzando Fiere e concludendo contratti soprattutto in Russia e in Cina. Coniugata, ha una figlia.

Insieme con la collega Anna Maria Castoldi ha partecipato e vinto alcuni concorsi letterari, altri li ha vinti da sola, negli anni 2014, 2015 e 2016. In seguito hanno pubblicato due gialli: nel 2017 “Delitti nell’orto” (Happy hour) e nel 2018 “Fughe e ritorni” (Scatole Parlanti) finalista al Garfagnana in Giallo 2018. Nel 2019 hanno pubblicato insieme a Giuseppe Milanesi “La svolta” con Edizioni Convalle. Con questa casa editrice nel 2020 hanno ripubblicato “Delitti nell’orto, le prime indagini della sciura Marpol” con l’aggiunta di una indagine supplementare.

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