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“Bouquet” di Jeanette Baker,Sperling & Kupfer, traduzione di Elisabetta Lavarello

Ti piace giocare facile, direte.

Ti sei scelta la via più breve, commenterete.

Che ovvietà, aggiungerete.

Vero solo in parte, confesso, ma lasciate che vi rubi qualche minuto, prima di parlarvi di “Bouquet”.

Niente è semplice, dicevano i saggi. E io sposo questa tesi. Anche le questioni più ovvie, i lavori più umili, i rapporti più consolidati nascondono ombre e tagli, risvolti e lesioni più o meno profonde, gradini e ostacoli più o meno faticosi. È altrettanto vero che ciò che rende vera una vita è proprio la capacità dell’uomo di affrontare il cambiamento e renderlo un punto di partenza e non una fine.

Da qui, ammetto che la scelta di seguire un filone letterario nel quale la cucina è uno degli ingredienti fondamentali della trama non è stata una scelta semplice, anzi, per certi versi l’ovvietà è stata un ostacolo che, in alcuni frangenti, mi ha messo a dura prova.

Se vi proponessi alcuni passi del testo, semplicemente estrapolandoli o amplificandoli, la banalità del mio testo sarebbe improponibile, al limite del ridicolo.

Quindi, cari lettori, non vi sarà difficile comprendere quando sia complesso trasformare la banalità in semplicità.

Ora, dopo questa lunga ma doverosa premessa, cercherò di presentarvi “Bouquet”.

Questo è un libro che la californiana Jeanette Baker scrisse, e pubblicò, nel lontano 2005. La California è una terra dai mille volti, che troppo spesso è ridotta a un immaginario collettivo fatto di mare-sole-dolcevita. In realtà, l’oceano è solo una parziale visione di questo stato: il 45% è formato da foreste e il 25% dal deserto; l’area nord, per influsso di correnti miti, è la più verde, le provincie a sud, quelle rivolte verso il confine interno e più distanti dall’influsso dell’oceano, sono le più aride e secche.

La valle di Santa Ynez, una piccola area nella contea di Santa Barbara che si affaccia sull’oceano, costituisce l’ambientazione perfetta per “Bouquet”. Il paesaggio è un susseguirsi di dolci colline colorate da acini bianchi e neri, il cui aroma rende l’aria più raffinata. Gli spazi sono infiniti, a tratti. I terrazzamenti sono perfetti, armonici, formati da lunghi filari che sembrano non interrompersi mai, fino all’ultimo crinale. A Santa Ynez, la terra è un bene prezioso, che si tramanda di generazione in generazione; è la vita che scorre; è famiglia e impegno; è un devoto e inarrestabile senso di appartenenza che, qualche volta, crea solchi e diversità apparentemente insormontabili. Dalle colline e dai suoi frutti, infatti, dipende molto più che un raccolto: l’uva buona, raccolta secondo i più antichi metodi, le analisi preliminari e la creazione del mosto, può decretare la stabilità o il fallimento di famiglie e, al peggio, di un’intera comunità.

A Santa Ynez, i cieli e la luna contano più che in altri luoghi, l’acqua è il bene da custodire gelosamente, il vento e il caldo possono diventare amici o nemici, a seconda della stagione. Qui, le tradizioni sono vita e ogni possibile cambiamento, è visto con sospetto.

Non si entra in punta di piedi, alla tenuta De Angelo. Le fratture sono esposte, il destino ha già compiuto le sue malefatte e l’atmosfera è rigida, come la struttura che sorregge le viti. Francesca deve la sua forza alla terra che l’ha cresciuta, alla fatica e al sacrificio. Jake, il suo ex marito, è in transito, diretto nel suo cuore e nelle prospettive che il suo futuro sta per riservargli. Nick è il loro bambino, un legame, un vincolo, una dolcissima responsabilità. Julianne ricopre il ruolo materno, è mamma di tutti, nonna di Nick. Mitch sembrerebbe l’antagonista, padre di due gemelli problematici e soli.

Francesca sostiene di non sapere cucinare; Julianne è certa di non saper fare altro, ed è altrettanto certa di poter garantire la sopravvivenza della famiglia, sotto l’aspetto emotivo, lavorando in cucina.

Francesca ricorda la fine del suo matrimonio, quella sera, quando lei era uscita per comprare qualcosa di pronto, perché il tempo da dedicare alla cucina non c’era e lei era troppo stanca per farlo; Jake si rimbocca le maniche, quando è di ritorno alla De Angelo a causa di una frattura che lo obbliga a fermarsi e prepara costate e patate al forno; Julianne sforna dolci al cioccolato, torte al limone e scones, cuoce brownies, organizza un cappuccino bar, mette in tavola i gusti di ognuno, impasta sfogliatine di mela e sparge salvezza su un adolescente insicuro grazie a dei profiteroles.

Quando Francesca torna in cucina, il destino ha già tuffato i dadi e la strada è già spianata. È per Jake, per Nick, per Julianne e Mitch, per i ragazzi, ma soprattutto per lei e per quel sentimento che la tiene legata alla terra che le appartiene che compone insalate di gamberi e mais.

“Bouquet” è un libro nel quale la narrazione è affidata a un testimone che non teme di rivelare ciò che è stato, in linea temporale, e ciò che sarà. Nel bel mezzo di questa narrazione, i momenti, le sensazioni e i fatti del presente sono ricchi di vibrazioni positive, mai banali, tutti da vivere.

Scrivere di vino è una faccenda seria. Saper fare un buon vino è un’arte che pochi fortunati possiedono e che, per noi neofiti, emana un fascino irresistibile. E, infine, un tema tutt’altro semplice da usare come sfondo-trama per un romanzo: senza rimandi tecnici, infatti, si perderebbe la serietà che i grandi romanzi devono trasmettere ai lettori. Ultimo fattore, non per ordine d’importanza s’intende, è legato ai personaggi che, anch’essi, devono restare ancorati alla loro esistenza e a quel quadro immaginario nel quale l’autrice li ha collocati.

“Bouquet” è tutto questo. 

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