“Finché avete fame, mangiate”. Citazione tratta “Dieci tazze a colazione”.
Ho cercato la definizione di fiducia, sul mio dizionario. L’ho letta un paio di volte, prima di decidermi a usarla come inizio del mio articolo. Ve la riporto: “sentimento di sicurezza che deriva dal confidare senza riserve in qualcuno”. È stato quel “senza riserve” ad avermi convinta: quella non condizione, quel senso di infinito, di affidamento.
Ecco, se fossi obbligata a scegliere un solo significato per il libro di Irene Renei “Dieci tazze a colazione”, pubblicato da AltreVoci Edizioni, sceglierei la fiducia. Senza dubbio.
Sei solo a pagina 12 quando incontri questo sentimento e, da quel momento, non te ne liberi più.
«Io ho paura!», dice Bashir, tenendosi a un tubolare del tendalino.
«Non averne, io sono qui, appena entri in acqua ti metto le mani sui fianchi e ti tiro su. Fidati di me!»
Bashir guarda il fratello e poi il mare.
Sgrana due occhi enormi e neri in direzione di quel gigante che lo aspetta nell’acqua e grida: «Giura che mi prendi!»
«Ti prendo, promesso.»
In questo diario, intimo e coinvolgente, Irene racconta un passaggio cruciale della sua vita. Una vita che lei stessa definisce fortunata, che le ha dato amore, sicurezza, un lavoro, una casa e una barca per navigare con marito e figli, tra le onde blu del Mar Ligure. Qualche privilegio, qualche cambiamento e tanti traguardi, tutti meritati. Succede, però, che in questa esistenza all’apparenza perfetta scenda un’ombra e che lei si trovi all’improvviso disorientata. Le sembra di camminare su un terreno fragile, sconosciuto, e per ritrovare sé stessa decide di tuffarsi in un’attività che stravolgerà per sempre la sua vita e quella dei suoi cari: diventa volontaria presso una comunità che accoglie madri e bambini che hanno conosciuto solo ingiustizia, paura, solitudine e povertà.
Di questa avventura – e di molto altro – parleremo tra poco con lei, Irene, che ha accettato il mio invito a partecipare alle Boodinterviste.
VG: Benvenuta, Irene. È un piacere averti qui.
IR: Sono io che ringrazio te per questa chiacchierata fra donne
VG: Inizio con una domanda diretta, all’apparenza banale. Chi è Irene?
IR: Non è una domanda banale.
Anzi, è difficile risponderti. Oggi sono una donna realizzata, con una parte ancora adolescente che riesce ad entusiasmarsi ancora per piccole cose e una parte più matura che tira le fila di una famiglia numerosa.
Sono una donna che è riuscita finalmente a realizzarsi facendo ciò che ha sempre sognato e in cui ha creduto troppo poco: scrivere.
E sono una persona che sente sulle spalle il male degli altri e vorrebbe poter cambiare il mondo.
Potrei andare avanti per cento pagine.
Non credo sia il caso.
VG: Perché proprio dieci tazze e non, giusto per dire, nove o undici?
IR: Dieci non è un numero preso a caso. Il sabato mattina e la domenica siamo minimo dieci persone a sederci al tavolo della colazione: io, mio marito, i nostri figli, i figli in affido e amici dei nostri figli che sono ospiti fissi nel fine settimana. A volte siamo di più.
VG: Il caffè è un simbolo, in questa tua opera. Ho amato i passaggi in cui hai annotato le mattine alla finestra, quando i tuoi cari lasciano casa e tu ti ritrovi da sola, a pensare. L’ho percepito come un momento di raccoglimento, ma anche un principio, come una pagina bianca. È davvero il tuo momento di riflessione, dove – per citare un passaggio commovente – “un nodo mi si è sciolto all’altezza della gola e tutto mi è apparso più chiaro”?
IR: È esattamente così. Amo alzarmi per prima, con la casa in silenzio, il buio fuori. Ho un grande privilegio, il mare davanti a casa. Vedere il sole sorgere la mattina e colorare l’acqua con fantasie diverse ogni mattina mi fa dire grazie. Un grazie diverso ogni giorno. E da lì inizio…
VG: Un altro elemento che torna spesso è il mare. L’ho avvertito come un faro, come un punto di riferimento, ma anche come la rappresentazione della libertà di essere ciò che si desidera. È stato, in qualche modo, fonte di inspirazione, durante la stesura del libro?
IR: Sarebbe riduttivo dire che il mare sia per me fonte di ispirazione.
In casa mia il mare si respira. Sono la moglie di un pescatore. Mio marito a 6 anni faceva i suoi primi lavori subacquei con le bombole. A dodici partiva di notte, d’estate, con i pescherecci che andavano per acciughe e tornava all’alba con il pescato.
Casa mia è un groviglio di reti, fucili da pesca subacquea, mute, erogatori.
In casa mia chi comanda è il mare.
Più tira vento, più il mare è grosso e in tempesta, più mio marito scappa da lui per pescare, fino a che tutto viene inghiottito dal buio. Tutto tranne la mia ansia e le mie preghiere.
Quelle galleggiano.
Il mare è parte della mia famiglia.
VG: Ora vorrei addentrarmi nelle pieghe del tuo libro che, ammetto, mi ha emozionata, in molti passaggi. Più che un libro, mi permetto di dire, è una testimonianza. Ho percepito il tuo bisogno di condividere la tua esperienza di volontariato attraverso la narrazione. Cosa ti ha spinto a farlo?
IR: L’esperienza degli ultimi anni, vicino agli ultimi della vita, mi ha talmente coinvolto e sconvolto che non potevo tenerla per me.
Dove vivevo io prima? In che realtà parziale navigavo? Io davvero non me ne capacito. Ecco, volevo servirla anche agli altri perché si potessero fare, una volta letto il libro, le stesse domande. Domande che costringono dopo ad agire.
VG: Ho iniziato il mio articolo parlando di fiducia. Quanta ne serve per spalancare il cuore a uno sconosciuto? E, al contrario, è necessario dosarla, quando ti appresti a varcare le porte di una comunità madre-bimbo?
IR: Ne serve molta a loro, che dalla vita hanno preso schiaffi e pugni, per imparare a fidarsi ancora di qualcuno.
Per chi entra in una comunità pensando di aiutare è tutto più facile.
I bimbi ti prendono il cuore, lo strizzano, poi lo accarezzano e tu puoi solo lasciarlo tra le loro mani perché stai bene così. Devi solo imparare la misura nell’accudirli perché spesso una madre c’è e il suo ruolo deve rimanere tale.
VG: Uno degli altri temi che hai esplorato è quello della maternità e della genitorialità in senso ampio. Chi è una madre?
IR: Sicuramente non è il sangue a renderci genitori e figli. Nella genitorialità sta il prendersi cura. Siamo figli di chi ci ama. Siamo madri di chi amiamo, che sia un figlio, un’amica. Siamo madri dei nostri genitori quando invecchiano.
Sicuramente non è il parto a rendere una donna madre, non è il seme che fa un padre.
VG: Le feste, in casa tua o presso la comunità, sono state una bella sorpresa, da leggere: barbecue a base di pesce, merende a base di Coca –Cola e Nutella … Una domanda che esula dall’aspetto letterario ma che, ti confesso, non posso evitare. Come ti organizzi e dove trovi il tempo per ospitare, abitualmente, i tanti amici tuoi e dei tuoi figli in casa? Sono curiosa, svelaci qualche consiglio pratico.
IR: Se qualcuno ne ha di consigli, li dia a me. Io navigo a vista e improvviso.
Tento di organizzarmi ma non riesco mai del tutto a farlo. Mio marito è una grande spalla, O forse io sono la sua. Diciamo che tenendoci stretti riusciamo a sopravvivere e amiamo questa rete di sentimenti che abbiamo costruito.
Oggi mentre rispondevo alle tue domande, in dieci minuti la porta si è aperta tre volte e in un attimo avevo in casa sei altissimi adolescenti “abituali”.
Quando si fidanzano (e lo fanno spesso) portano anche i fidanzati e le fidanzate
Si aggiungono figli di cuore.
E poi ci sono i nostri amici. Tantissimi e indispensabili. Abbiamo tre tavoli da unire in sala per riuscire a cenare tutti seduti. Loro sono un grande valore aggiunto, non solo per noi, ma anche per i nostri ragazzi.
Si cucina, si mangia, ci si confronta.
VG: Hai scritto: “ eppure la vita, dove noi lasciamo silenzio, spesso decide comunque di dire la sua”. Cosa ha detto, la tua? E cosa ti dice, oggi, dopo aver raccontato la tua esperienza che, permettimi di dire, è straordinaria, in molti suoi aspetti?
IR: Ho messo in silenzio il cuore, quando non arrivava il terzo figlio, e sono arrivati tre fratelli in affido. Ma davvero non ci avevamo mai pensato.
Oggi mi dice che non bisogna mettere confini all’amore, non bisogna mettere confini tra le terre, che ogni bambino ha diritto ad una casa, ad un piatto caldo in tavola e alla certezza che una mano si avvicini al suo viso solo per fare una carezza. E che la mia voce e il mio libro sono come un messaggio dentro a una bottiglia lanciata tra le onde.
Non so a chi, non so in che parte del mondo, e non so quando, ma a qualcuno arriverà. E muoverà sentimenti e pensieri nuovi.
Siamo parte di una società a cui non si può solo e soltanto chiedere.
VG: La diversità ci fa paura, da sempre. Siamo impauriti da ciò che non conosciamo perché temiamo il cambiamento. Eppure leggendo la tua testimonianza si percepisce quanto le storie che hai narrato siano esse stesse dense di paure. Paure giustificate. Paure enormi come macigni caduti nel posto sbagliato. Secondo te, quanto conta l’affetto (l’amicizia, la vicinanza, l’altruismo) per sostenere donne così fragili e bambini che hanno bisogno di speranza?
IR: L’affetto, la cura, il rispetto del dolore vissuto sono le fondamenta su cui costruire. Sono indispensabili. Poi sono necessarie le competenze: psicologi, psichiatri, pedagogisti. Le loro paure sono cosa seria. Non passeranno con l’amore.
Ma con l’amore e l’aiuto di persone esperte impareranno a gestirle.
VG: Nel tuo libro, si percepisce il potere che l’apertura sociale genera, e non solo in termini di crescita personale. Come sei riuscita a gestire il carico emotivo che il volontariato ti ha riservato?
IR: Io non l’ho assolutamente gestito. Io ne sono stata travolta. Mi è entrato dentro, mi ha avvelenato e mi ha dato però una gran forza di reazione.
Ora combatto contro tutto ciò che mi si para davanti e mi sembra ingiusto. Busso alle porte di chiunque senza timore del nome inciso sulla targhetta.
E se non mi stanno a sentire scrivo sul mio blog che ad oggi viene letto da 39.000 persone.
Qualcuno prima o poi si fermerà ad ascoltare.
VG: Ti ringrazio, Irene, per essere stata con noi e, come ultima domanda, ti chiedo quali sono i puoi prossimi progetti, letterari e non.
IR: Al momento voglio concentrarmi su ” Dieci tazze a colazione ” sui miei ragazzi, e sulle donne che con i gruppi di auto mutuo aiuto cerco di portare fuori da ogni genere di violenza, partendo da quella psicologica, economica, fino alla violenza che siamo più abituati a riconoscere, quella dei pugni e delle ossa rotte.
Le mie giornate sono piene
Mi serve solo tempo.
E quello devo solo pregare qualche dio, non so bene quale sia il migliore, che me ne lasci ancora un pò.
Perché questa vita, nonostante il male che siamo capaci di fare, a me piace ancora tantissimo.
VG: Buona vita, Irene. Ti aspettiamo, quando vorrai, per raccontarci ancora la tua esperienza.
Si ringrazia Virginia Leoni dell’ufficio stampa AltreVoci per il file lettura omaggio.
Nota biografica dell’autrice:
Irene Renei, classe ’72, nata e cresciuta in Liguria, è scrittrice e autrice del blog “Donne che pensano” con ampio seguito sui social. Agente finanziario, ha sempre amato più le parole dei numeri, fino a decidere di lasciare quell’ambiente altamente performante per cercare una nuova dimensione nella scrittura. Sposata, con due figli e tre fratelli in affido diurno, è da sempre vicina alle problematiche sociali legate al ruolo della donna nella nostra società e alle molteplici dinamiche che legano genitori e figli. Nei suoi scritti tratta con particolare attenzione temi che spaziano dal mondo complesso degli adolescenti di oggi ai molteplici ostacoli delle donne vittime di un sistema che spesso le mette all’angolo, nel tentativo di sensibilizzare il pubblico a realtà che spesso ci scorrono accanto in un silenzio assordante.
davvero interessante!
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Grazie, Marcella. Sono contenta che ti abbia incuriosito.
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