Le feste sono giunte al termine, Natale si è portato via i dolci momenti d’attesa e l’anno appena iniziato profuma di pagine bianche, tutte da scrivere. Le tovaglie belle e i servizi delle feste stanno per essere riposti nelle credenze. I piatti sono vuoti, i bicchieri lavati e asciugati alla perfezione. Qualcuno ha visto realizzarsi desideri, per altri è stata dura lottare contro la solitudine che è più difficile da digerire, nei momenti di festa. Tante famiglie si sono fidate della cucina tradizionale, assaggiato ed elogiato i sapori di un tempo. La cucina ha unito le amine, anche quelle all’apparenza più distanti. In gran parte delle nostre tavole, gli alimenti sono stati acquistati da negozianti di fiducia, e sono stati oggetto di discussioni tra mamme, suocere, figlie, nipoti.
Ne “Il Teatro Galleggiante”, opera di Martha Conway, edito da Salani, il concetto di cibo è tutt’altra questione. Siamo negli Stati Uniti d’America, nell’era del crudele schiavismo, quando il Nord era tutto ciò che il Sud sognava di diventare. Nell’America di quel tempo, a metà dell’ottocento circa, il nutrimento rappresentava la scala sociale: l’abbondanza destinata ai ricchi lasciava ai poveri solo qualche briciola.
La voce sincera e ironica di May, la coraggiosa protagonista, ci porta su un battello, il Moselle, poco prima della sua esplosione, tra i tavoli dell’alta società, dove il pollo fritto e alla griglia si accompagna al pane fresco, e dove i commensali possono scegliere tra legumi e frutta sottoaceto. Ci racconta della colazione, a casa della signora Nedel, la donna che la ospita e che le ricorda di essere ancora viva, nonostante abbia perso tutto quando il Moselle è affondato. Qui, in questa casa semplice, la colazione è abbondante perché è l’unico vero pasto della giornata: la carne e le frittelle, si alternano a biscotti e prosciutto. Il divario tra i due mondi prosegue e si amplifica, quando May si trova a fare i conti alla tavola della signora Howard, la donna che, avida di proseguire la sua battaglia contro gli schiavisti, le “sottrae” la cugina Comfort, l’unica vera amica e fonte di reddito che May abbia mai avuto. Qui, in questa casa sontuosa, il domestico serve del raffinato pesce bianco e del cervo accompagnato da uno sciroppo di pesca, fagioli, fagiolini, crema inglese e dei freschi panini appena sfornati. May giunge sul “Teatro Galleggiante” spinta dalla solitudine, dalla fame e dall’unica certezza che le è rimasta, quella di saper cucire abiti e orli alla perfezione. Il “Teatro” è un groviglio di anime artistiche, cuccette spoglie e una cucina che serve zuppe di pesce, ciambelle e sformati. Ed è proprio da questa imbarcazione a due ponti che May si trova ad affrontare un viaggio tra le pieghe del suo coraggio, lo stesso che lei è convinta di non avere; un’esperienza al limite della giustizia, una corsa contro il tempo e la notte, una sfida all’ultimo respiro.
Martha Conway ha creato un personaggio straordinario: una giovane donna sola, apparentemente indifesa, che sfida il mondo crudele nel quale è precipitata con la sola forza del cuore. La trama gravata dal tema della schiavitù che emerge con prepotenza è costruita secondo i dettami del romanzo storico e scorre lentamente, in perfetta armonia con l’immagine del battello che affonda la sua ciglia nell’acqua.
Le pagine sono ricche di arte culinaria: torte di ciliegie, uova sode, limonate fresche, frittelle, legumi, pesce di fiume, in ogni sua veste. Si tratta di piatti semplici creati con materie prime fresche e disponibili serviti in angoli stretti, nei quali la convivenza e la condivisione sono d’obbligo. Leggere “Il Teatro Galleggiante” è tornare all’origine quando il cibo simboleggiava unione e rispetto, riscatto e (soprattutto) un fiume di libertà.
Un concetto che abbiamo dimenticato e che oggi ci impone una doverosa riflessione.