Progetta un sito come questo con WordPress.com
Crea il tuo sito
Post in evidenza

Recensione: “A nord del destino” di Stefania Convalle, Edizioni Convalle. Prefazione di Olga Merli.

“Comunque ci siamo seduti intorno al tavolo della cucina, che è sempre stato il teatro delle comunicazioni importanti, oltre che dei pranzi e delle cene, e li guardavo, prima lui, poi lei, ma nessuno dei due cominciava a spiegarmi che cosa ci fosse di così importante da dirmi.”. Citazione tratta da “A nord del destino”.

Se i tavoli delle nostre cucine potessero parlare racconterebbero le nostre vite senza filtri né inganni e, con molta probabilità, sarebbero in grado di porci davanti alle nostre responsabilità con trasparenza, obbligandoci a riconoscere il valore delle nostre azioni e a riflettere su ciò che non abbiamo potuto cambiare. Sarebbero anche d’accordo ad ammettere che la sincerità è faticosa, mette in dubbio le certezze e, a volte, può agire sul destino, modificandone l’esito.

Stefania Convalle, nella sua ultima opera “A nord del destino”, pubblicata da Edizioni Convalle, afferra il concetto più profondo della sincerità e lo frantuma per poterlo analizzare, per consegnarlo al lettore sotto forma di una trama ricca di sentimento e tensione.

Siamo in epoca moderna, dell’ambientazione geografica abbiamo un unico indizio certo – che torna spesso nell’opera – e che conferma la profondità della narrazione: il mare. Un mare d’autunno denso di nostalgia che per certi aspetti assomiglia al tavolo delle nostre cucine: sembra essere custode di segreti, paure e desideri. Uno sfondo che accresce l’atmosfera struggente dell’opera.

Aurora è una donna che deve fare i conti con una nostalgia profonda, la cui vita è stata “macchiata” da una storia d’amore deludente, che l’ha privata di un futuro sentimentale stabile e soddisfacente. Amelia è la sua migliore amica, la sua confidente, il suo faro, la donna che la spinge ad alzarsi, sempre e comunque.

Il legame tra queste due donne non è solo l’amicizia: tra loro ci sono Giovanni –  marito di Amelia -, i loro figli – Luca e Fabio -, e Andrea. Quest’ultimo personaggio meriterebbe una pagina a parte ma, per evitare di rivelarvi troppi indizi circa gli eventi salienti, mi limiterò a confessarvi che le sue azioni e il suo pensiero sono stati, sin dall’inizio, una sorta di bomba innescata: non sapevo quando sarebbe esplosa, ma avevo la certezza che sarebbe successo.  

Se di Aurora conosciamo subito le sue fragilità e la sua solitudine, per conoscere Amelia ci dobbiamo addentrare nella trama. Di lei, c’è una condizione che appare con chiarezza: deve convivere con un profondo senso di colpa. Per accentuarne l’effetto, Stefania Convalle viaggia avanti e indietro nel tempo e ci presenta un quadro complesso, in termini sentimentali: bugie, silenzi, segreti, passioni, tormenti, doveri. Elementi che l’autrice ha miscelato per creare il destino dei suoi personaggi.

Un breve cenno va a un personaggio che appare nel bel mezzo della narrazione: una donna. Per presentarcela, l’autrice ha usato un alimento narrativo che è risultato particolarmente efficace. La donna, infatti, cucina biscotti. Tutti i giorni. Nella sua casa, il profumo dolce dell’impasto è netto, riconoscibile. Questo aspetto è un chiaro riferimento al bisogno innato di pace domestica ma anche a quel senso di nostalgia e mancanza che una vita senza amore può causare.

A nord del destino” può essere definito un romanzo di esplorazione dell’Amore. Questo sentimento è legato alla sfera genitoriale ed è raccontato dal lato materno e paterno; poi c’è quello legato alla passione irrazionale; infine quello più intimo, legato al sé. L’effetto finale genera qualche certezza: a volte una fine è solo un principio e l’amore è un sentimento controverso, mai lineare. Così è il destino, così è la vita.

L’ultima nota è destinata alla scrittura di Stefania Convalle che è stata definita da Olga Merli – autrice della prefazione –“asciutta, pragmatica e poco avvezza a inutili orpelli”. Sono d’accordo con questa definizione che rappresenta bene la caratteristica principale della scrittura dell’autrice. Tuttavia, “A nord del destino” presenta un cambio di stile che ho trovato interessante: la narrazione è, infatti, in terza persona per quasi l’intera opera. Una novità che mi ha sorpresa e che mi ha permesso di percepire l’essenza dei personaggi – e della trama in generale – da un punto di vista nuovo e stimolante.

Si ringrazia l’Editore per il file lettura in omaggio.

Biografia dell’autrice:

Stefania Convalle ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Tra i riconoscimenti più importanti, il Premio Giovani “Microeditoria di qualità”: nel 2017 con il romanzo “Dipende da dove vuoi andare” e nel 2018 con “Il silenzio addosso”; entrambe le opere sono state presentate nel programma “Milleeunlibro” di Rai Uno. Con il romanzo “Lo specchio macchiato dal tempo”, nel 2022 si è classificata terza al San Benedetto Film Fest; nello stesso anno ha ricevuto una Targa per il romanzo “Una straordinaria solitudine” al Premio Milano International. Nel 2022, inoltre, l’incontro con la sceneggiatrice Olga Merli ha gettato le basi perché il romanzo “Il Manoscritto” diventi un film. Organizzatrice di eventi culturali, ha fondato il Premio Letterario Dentro l’amore e il Masterbook, il primo torneo di scrittura a eliminazione on line. Writer Coach, Talent Scout, Stefania è anche editrice dal 2017.

Pubblicità
Post in evidenza

Recensione: “Il mare dagli occhi” di Paolo Tomassi, Scatole Parlanti.

Con la borsa della frutta sulle proprie gambe, lei lo guardò incuriosita, passandogli una fragola.

«Che c’entra la minestra della nonna?».

«Sai che adoro la minestra di legumi e che la mangerei anche tutti i giorni, eppure, da bambino no, i fagioli non li mangiavo. Come vedi qualcosa è cambiato e vale anche per le candeline». Citazione tratta da “Il mare dagli occhi”.

Il cambiamento è una trasformazione che avviene in seguito a un processo che coinvolge l’individuo, il suo ambiente, la società in cui vive. Mi piace vederlo come un risultato, come la meta dopo un lungo viaggio.

Se volessi utilizzare un solo termine per presentare “Il mare dagli occhi” di Paolo Tomassi, edito da Scatole Parlanti, userei proprio il cambiamento inteso come transito, come un moto.

La trama si snoda attorno a Marina e Liliana. Marina è giovane ed è in cerca della sua identità artistica e personale, è allergica alle fragole, ma questo non le impedisce di gustarle fresche e di stagione. Liliana è la migliore amica della sua defunta nonna, è un’affermata scrittrice e un’appassionata pianista, ama i silenzi e la concentrazione, è arrivata a Roma per restare (dopo aver lavorato tanti anni a Milano) ed è sempre stata una presenza costante nella vita di Marina.

Nelle prime pagine, il lettore conosce anche la famiglia della ragazza: papà Livio, mamma Paola, fratelli e amici.

Il cambiamento si avverte subito, nei primi capitoli: Marina è disorientata ed è in cerca di una strada che la ispiri; Liliana sta cercando di fare ordine tra la voce dei personaggi del suo prossimo libro e, da lontano, appare la figura di nonna Elena che Marina sente il bisogno di conoscere. L’amicizia tra Liliana ed Elena è il trigger: Marina avverte il desiderio di riprendere le tappe della vita della nonna per trovare sé stessa e riesce a farlo proprio grazie alla memoria della scrittrice. Sullo sfondo l’Istria del periodo post bellico, quando molti italiani furono costretti a lasciare le loro case e quel senso di libertà che si era rivelato un inganno.

Le due protagoniste evolvono, entrambe in balia del cambiamento che il passato genera: per Liliana è un ritorno, per Marina è una scoperta. Ci sono segreti, silenzi, ingiustizie, sgambetti del destino e un viaggio da compiere per arrivare alla verità che condurrà a una nuova e ulteriore trasformazione che coinvolgerà tutti i personaggi.

C’è un secondo aspetto che colpisce, in questa lettura, ed è legato al mondo dell’arte che Paolo Tomassi ha narrato. L’autore ha scelto di affidare la scrittura e la musica a Liliana e l’arte pittorica a Marina: scelta di non facile applicazione, mi permetto di dire, ma ben riuscita. Ci sono passaggi delicati, in cui l’autore cattura l’arte di Marina e la riporta, sotto forma di parole, con uno stile preciso ma comprensibile. Si ha come l’impressione di “leggere” un quadro e l’effetto generale è piacevole, originale. Anche in questi passaggi, la sensazione di trasformazione è piuttosto evidente.

Sul concetto di ispirazione, l’autore torna spesso: lo esplora, lo analizza, lo inserisce accanto alle vicende che vivono i suoi personaggi e lo spiega con precisione, quando Marina giunge nel suo performace peak, durante un’esecuzione pittorica, una delle più significative del romanzo.

Un’ulteriore nota va a favore dei sentimenti sui quali ruota il romanzo: l’amicizia e l’amore. Il primo coinvolge totalmente la giovane Marina e l’anziana Liliana che, davanti a tè e biscotti si confrontano su esperienze, lotte giovanili e speranze ponendo così le basi del legame che sigillerà le loro vite. Il secondo potrebbe apparire meno esplicito perché appare nel bel mezzo della trama, ma, proseguendo nella lettura, ci si accorge di quanto sia importante: è un nodo centrale e indispensabile.

Infine, “Il mare dagli occhi” racconta la libertà, le radici, le differenze, e quel cambiamento sociale che, ancora oggi, resta un tema di grande rilevanza. Un racconto efficace attraverso un altrettanto efficace utilizzo del linguaggio gastronomico, ben evidenziato dalla seguente citazione. Una delle più gradevoli, secondo me.

«Aveva imparato a parlare senza fare distinzioni tra vocaboli italiani croati o magiari, visto che tutti si usavano indistintamente in casa. Quando da bambina mescolava tutto nello stesso discorso, suo padre e diceva che quelle sue conversazioni somigliavano al menu di una qualsiasi famiglia istriana, in cui il gulash si mangiava insieme agli gnocchi di patate, e i krauti erano buoni quanto i “Risi e Bisi”.

Si ringrazia l’ufficio stampa, nella persona di Valentina Petrucci, per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autore:

Paolo Tomassi è nato a Roma nel 1970. Nel 2016 si è trasferito stabilmente a Venezia. Laureato in Lingue e letterature straniere moderne sotto la guida di Agostino Lombardo, ha pubblicato Grano della Speranza (L’Autore Libri Firenze, 1990) e attualmente lavora come docente. Ha scritto alcuni saggi in formato digitale sulla glottodidattica – Adolescenti e glottodidattica e Full Time Tutoring System, (2016) – e gestisce un canale YouTube. Alla Serenissima ha dedicato la trilogia Marzio Marin, il cui primo episodio, El Vèro e Le Vére, è stato pubblicato da Casa Editrice el squero nel 2020.

Post in evidenza

Recensione: “Il secondo piano” di Ritanna Armeni, Ponte alle Grazie.

«Lo vuoi un po’ di pane con la marmellata?» gli domandò con un sorriso complice. Si era ricordata che, fra le preziose provviste di suor Emilia, c’era qualche vasetto di confettura di visciole, provenienti da un albero del giardino.  La suora economa la distribuiva con parsimonia, ma non avrebbe avuto nulla in contrario se ne avesse preso un cucchiaino per il piccolo ospite”. Citazione tratta da “Il secondo piano”.

Una delle tante proprietà delle visciole è l’elevato potere saziante. Effetto che si intensifica, se vengono trasformate in marmellata da stendere su una fetta di pane. Il gusto di questa composta è, nel complesso, delicato ma con carattere, intenso ma acidulo: è un gusto unico che solo in parte assomiglia a quello creato coi suoi frutti fratelli– amarene e ciliegie.

Questo gusto particolare è perfetto per introdurre il libro di Ritanna ArmeniIl secondo piano”, edito da Ponte alle Grazie.

Siamo a Roma, la seconda guerra mondiale sta gettando ombre mostruose sull’umanità: la privazione della libertà, la paura e il sospetto sono all’ordine del giorno. In un convento francescano di periferia giunge un gruppo di persone in fuga dal Ghetto: chiedono ospitalità per fuggire ai rastrellamenti che stanno diventando sempre più frequenti. È un gruppo eterogeneo formato da donne – di cui una incinta -, bambini, anziani e ragazzi.

Suor Lina apre la porta ed è la prima sorella che il lettore incontra: è una novizia dolce e un po’ insicura. Poche pagine scorrono rapide e si comprende di più su Madre Ignazia che ha origini tedesche, è una donna coraggiosa, una guida, un faro; Suor Benedetta che ha insegnato nell’asilo del convento, prima che venisse smantellato; suor Maria Rita responsabile delle pulizie che tende a essere sospettosa nei confronti degli sconosciuti; Suor Elisabetta che si occupa della cucina; suor Emilia la “maestra” di Lina dal carattere severo ma sereno e, infine, suor Grazia la più anziana che in virtù di questa sua posizione privilegiata si permette di dire sempre ciò che pensa.

La personalità delle donne, che io ho sintetizzato, in realtà è ampiamente descritta e ne ho trovata traccia un po’ ovunque: ognuna, infatti, ha modo di esprimere sé stessa, di riflettere sul proprio percorso di fede, di agire secondo le regole che la sua posizione ricopre, di legarsi ancor di più al gruppo, di affrontare il proprio destino, di tenersi ancorata a un mondo – quello della preghiera – che rappresenta la protezione e l’accoglienza. La sfera emotiva – ma anche l’azione– dei personaggi viene resa ancora più incalzante quando al convento arriva un gruppo di soldati tedeschi che “chiede” di poter utilizzare uno spazio da adibire a infermeria.  Da quel momento in poi, l’aria quieta che fino a quel momento ha gravitato attorno al convento diventa densa di paura: al piano terra ci sono i soldati tedeschi, al primo le sorelle, al secondo i rifugiati ebrei. La trama si arricchisce di strategia, furbizia, audacia, silenzi e preghiere che animano la lettura e la rendono ancor più coinvolgente.

Insieme allo sviluppo della personalità dei personaggi, c’è un altro elemento che colpisce: il convento. Non è solo un luogo d’ambientazione: è più simile un microcosmo dal quale le energie si irradiano. Energie positive, pacifiche. Energie che, con una sterzata alla narrazione e agli eventi, si trasformano in negative. È stato interessante leggere come l’autrice abbia esplorato il conflitto generato dal nemico dentro: il male che non è più altrove e lontano ma così vicino da poterlo sentire respirare, parlare, muoversi.

Il convento, nello specifico, è un edificio a due piani avvolto dal silenzio e protetto da un orto; c’è una grande cucina al piano terra che accoglie anime e infonde speranza, e una chiesa, accanto al giardino. Nel leggere “Il secondo piano”, ho percepito lo straordinario luogo che l’autrice ha raccontato e il potere che questo ha avuto, in quell’epoca: il convento era la salvezza, la protezione, la speranza. Un luogo nel quale la preghiera era sostegno e difesa; dove il silenzio ascoltava paure insostenibili; dove l’accoglienza era un dovere pericoloso; dove ogni anima aveva il suo spazio spirituale e dove il gruppo era coeso, indivisibile. Infine, un luogo che attraverso il lavoro incessante, intelligente e preciso, permetteva una preziosa sussistenza, tema che l’autrice ha esplorato con maestria e che ha reso la lettura ancor più profonda.

“Siamo riuscite a preparare una cena calda. Suor Elisabetta ha fatto la sua buonissima zuppa di patate e la frittata con le erbe dell’orto. Le uova se le era procurate suor Emilia.” Questa citazione è tratta da una pagina del diario di suor Lina.

Quest’ultimo elemento è un ulteriore dono, per il lettore. Infatti, la narrazione è intervallata da pagine di diario (a opera di alcune sorelle): questa variante cambia il punto di vista e rende la lettura ancor più spirituale. In aggiunta al narratore e alla voce delle sorelle, ci sono anche precise notizie storiche che rendono ancor più chiara la scena narrata.

Concludo con una nota personale: della postfazione mi sono goduta ogni parola che l’autrice ha scritto per i suoi lettori e che mi conquistata, in ogni sua parte.

Si ringrazia Matteo Columbo dell’ufficio stampa per la copia cartacea in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

RITANNA ARMENI è giornalista e scrittrice. Ha lavorato a Rinascita, il manifesto, l’Unità, Liberazione. Capo ufficio stampa di Fausto Bertinotti, è stata per quattro anni conduttrice di Otto e mezzo insieme a Giuliano Ferrara. Ha pubblicato Di questo amore non si deve sapere (2015), vincitore del Premio Comisso; Una donna può tutto (2018); Mara. Una donna del Novecento (2020), vincitore del Premio Minerva; Per strada è la felicità (2021), tutti usciti per Ponte alle Grazie.

Post in evidenza

Recensione: “S.R.L. Furfanti allo sbaraglio” di Karla Offembach.

Pino comprese dalle espressioni interrogative dei coniugi che nessuno di loro conosceva bene i meccanismi legati alla costruzione o ristrutturazione di un immobile, come del resto non erano loro chiarissimi quelli relativi all’asta, ma si guardò bene dal precisare o sottolineare spiegazioni. Anzi, cambiò ancora discorso…”. Citazione tratta da “S.R.L. Furfanti allo sbaraglio”

Ho scelto queste quattro righe per anticiparvi il tema che l’autrice esordiente Karla Offembach ha raccontato nel suo “S.R.L. Furfanti allo sbaraglio “. C’è moltissimo, in questa citazione: i raggiri, il menefreghismo, il malaffare, la volontà di tralasciare, l’omissione volontaria, la falsità, l’immagine distorta della realtà e di sé, e la convinzione che toccherà sempre a qualcun altro rimediare ai guai causati da pochi.

Siamo a Malaffare, un paese dal nome piuttosto evocativo, unico centro abitato di un’isola del Mare Nostrum, e in un primo momento il ruolo di protagonisti potrebbe essere attribuito ai coniugi Concetta e Paolo. Lei è figlia di Santo “padre” Fora, usa scarpe con tacco alto nel vano tentativo di slanciare la forma della sua gamba, ha una risata sguaiata e un bisogno estremo di mostrarsi agli occhi di tutti come una donna d’affari preparata e affidabile pur senza aver mai fatto nulla di simile in vita sua. Paolo indossa una catena al collo colore dell’oro ed è un uomo dotato di una straordinaria ignoranza mista a ingenuità. Nonostante ciò, non si tira indietro davanti alle numerose imprese che fonda: pizzeria, rivendita ghiaccio per bar, gastronomia. Tutte attività che, si sa, sulla carta sono nate per far successo, perché la gente non manca mai quando c’è da mangiare bene e stare in compagnia. Sulla carta, ovviamente, perché senza preparazione, fiuto e competenza, anche la migliore idea si avvia al disastro economico.

La famiglia di Concetta ruba la scena ai due e in poche righe cadi della loro rete, convincendoti che sei di fronte a un romanzo corale. Il gruppo viene ben delineato quando Totonno – il fratello nullafacente -, la sua fidanzata – pronta a diventare un’imprenditrice di successo –, Santo e, seppur marginalmente anche Tatiana  – la sorella –  e Rosaria  – la madre -, vengono coinvolti nel progetto elaborato da Paolo e appoggiato da Concetta: l’acquisto di Villa Lisa a Onorabile, la sua ristrutturazione e la realizzazione di appartamenti vacanza. Siamo a tavola, naturalmente, perché le decisioni importanti – e le buone notizie – si consumano davanti a un pasto degno di tale nome.

“Totonno alzò lo sguardo oltre il lato corto superiore del telefono cellulare e rimase con un dito per aria e un messaggio in sospeso; Tatiana sbucò con la testa bagnata dalla porta del bagno e Rosaria posò la teglia di peperoni sulla tovaglia plastificata, poi cercò il telecomando sepolto dalle carte unte per schiacciare il tasto “mute”. Anche la televisione si azzittì.

Concetta annunciò: — Buone notizie! — E tacque.

Santo padre, con qualche difficoltà, scivolò dal divano per mettersi in piedi:

— Aspetta un momento che devo pisciare. Tatiana, esci dal bagno.

Ancora in accappatoio, Tatiana andò a sedersi di fianco a fratello e cognato che avvertirono un sentore di vaniglia tanto intenso da risultare fastidioso. Con lo sguardo,

Tatiana sfiorò la pelata di Paolo, che era più bassa di lei.

Concetta pregustò e anticipò la notizia con una sfilza di “sapeste, che roba, ci voleva proprio” fino al ritorno di Santo padre:

— Allora, che notizia sarebbe? Ma, prima di tutto, chi era?

Il tono autoritario di Santo padre non lasciò spazio ad altre divagazioni.

— Era Pino. Ha avuto un’informazione importante da Guido, un suo amico che lavora in Comune a Onorabile.

Da questo assaggio emergono molti particolari interessanti, che tornano spesso durante la lettura: l’ironia e il tono di voce che resta invariato; la descrizione minuziosa ma non fastidiosa delle caratteristiche dei personaggi e anche delle ambientazioni che mi hanno dato la giusta dose “fotografica” dei luoghi inventati dall’autrice; dei dialoghi sintetici ma precisi; l’andatura scorrevole che denota una ben riuscita narrazione che non soffoca ma che ribadisce l’atmosfera di “malaffare” che resta ben evidente, fino all’ultima parola. E, la speranza che, non troppo tardi, ogni guaio venga smascherato e giudicato.

Consiglio di lettura: per il tema trattato, la fluidità della narrazione, e quella nota ironica che emerge spesso, “S.R.L. Furfanti allo sbaraglio” è una lettura che si adatta a qualsiasi momento della giornata, del mese, della stagione.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Karla Offembach è una persona molto riservata, dal carattere schivo. Non ama parlare di

sé né mostrarsi. Preferisce raccontare, come ha scritto di sé nella quarta di copertina.

Post in evidenza

Intervista a Irene Renei autrice di “Dieci tazze a colazione”, AltreVoci Edizioni

Finché avete fame, mangiate”. Citazione tratta “Dieci tazze a colazione”.

Ho cercato la definizione di fiducia, sul mio dizionario. L’ho letta un paio di volte, prima di decidermi a usarla come inizio del mio articolo. Ve la riporto: “sentimento di sicurezza che deriva dal confidare senza riserve in qualcuno”. È stato quel “senza riserve” ad avermi convinta: quella non condizione, quel senso di infinito, di affidamento.

Ecco, se fossi obbligata a scegliere un solo significato per il libro di Irene ReneiDieci tazze a colazione”, pubblicato da AltreVoci Edizioni, sceglierei la fiducia. Senza dubbio.

Sei solo a pagina 12 quando incontri questo sentimento e, da quel momento, non te ne liberi più.

«Io ho paura!», dice Bashir, tenendosi a un tubolare del tendalino.

«Non averne, io sono qui, appena entri in acqua ti metto le mani sui fianchi e ti tiro su. Fidati di me!»

Bashir guarda il fratello e poi il mare.

Sgrana due occhi enormi e neri in direzione di quel gigante che lo aspetta nell’acqua e grida: «Giura che mi prendi!»

«Ti prendo, promesso.»

In questo diario, intimo e coinvolgente, Irene racconta un passaggio cruciale della sua vita. Una vita che lei stessa definisce fortunata, che le ha dato amore, sicurezza, un lavoro, una casa e una barca per navigare con marito e figli, tra le onde blu del Mar Ligure. Qualche privilegio, qualche cambiamento e tanti traguardi, tutti meritati. Succede, però, che in questa esistenza all’apparenza perfetta scenda un’ombra e che lei si trovi all’improvviso disorientata. Le sembra di camminare su un terreno fragile, sconosciuto, e per ritrovare sé stessa decide di tuffarsi in un’attività che stravolgerà per sempre la sua vita e quella dei suoi cari: diventa volontaria presso una comunità che accoglie madri e bambini che hanno conosciuto solo ingiustizia, paura, solitudine e povertà.

Di questa avventura – e di molto altro – parleremo tra poco con lei, Irene, che ha accettato il mio invito a partecipare alle Boodinterviste.

VG: Benvenuta, Irene. È un piacere averti qui.

IR: Sono io che ringrazio te per questa chiacchierata fra donne

VG: Inizio con una domanda diretta, all’apparenza banale. Chi è Irene?

IR: Non è una domanda banale.

Anzi, è difficile risponderti. Oggi sono una donna realizzata, con una parte ancora adolescente che riesce ad entusiasmarsi ancora per piccole cose e una parte più matura che tira le fila di una famiglia numerosa.

Sono una donna che è riuscita finalmente a realizzarsi facendo ciò che ha sempre sognato e in cui ha creduto troppo poco: scrivere.

E sono una persona che sente sulle spalle il male degli altri e vorrebbe poter cambiare il mondo.

Potrei andare avanti per cento pagine.

Non credo sia il caso.

VG: Perché proprio dieci tazze e non, giusto per dire, nove o undici?

IR: Dieci non è un numero preso a caso. Il sabato mattina e la domenica siamo minimo dieci persone a sederci al tavolo della colazione: io, mio marito, i nostri figli, i figli in affido e amici dei nostri figli che sono ospiti fissi nel fine settimana. A volte siamo di più.

VG: Il caffè è un simbolo, in questa tua opera. Ho amato i passaggi in cui hai annotato le mattine alla finestra, quando i tuoi cari lasciano casa e tu ti ritrovi da sola, a pensare. L’ho percepito come un momento di raccoglimento, ma anche un principio, come una pagina bianca. È davvero il tuo momento di riflessione, dove – per citare un passaggio commovente – “un nodo mi si è sciolto all’altezza della gola e tutto mi è apparso più chiaro”?

IR: È esattamente così. Amo alzarmi per prima, con la casa in silenzio, il buio fuori. Ho un grande privilegio, il mare davanti a casa. Vedere il sole sorgere la mattina e colorare l’acqua con fantasie diverse ogni mattina mi fa dire grazie. Un grazie diverso ogni giorno. E da lì inizio…

VG: Un altro elemento che torna spesso è il mare. L’ho avvertito come un faro, come un punto di riferimento, ma anche come la rappresentazione della libertà di essere ciò che si desidera. È stato, in qualche modo, fonte di inspirazione, durante la stesura del libro?

IR: Sarebbe riduttivo dire che il mare sia per me fonte di ispirazione.

In casa mia il mare si respira. Sono la moglie di un pescatore. Mio marito a 6 anni faceva i suoi primi lavori subacquei con le bombole. A dodici partiva di notte, d’estate, con i pescherecci che andavano per acciughe e tornava all’alba con il pescato.

Casa mia è un groviglio di reti, fucili da pesca subacquea, mute, erogatori.

In casa mia chi comanda è il mare.

Più tira vento, più il mare è grosso e in tempesta, più mio marito scappa da lui per pescare, fino a che tutto viene inghiottito dal buio. Tutto tranne la mia ansia e le mie preghiere.

Quelle galleggiano.

Il mare è parte della mia famiglia.

VG: Ora vorrei addentrarmi nelle pieghe del tuo libro che, ammetto, mi ha emozionata, in molti passaggi. Più che un libro, mi permetto di dire, è una testimonianza. Ho percepito il tuo bisogno di condividere la tua esperienza di volontariato attraverso la narrazione. Cosa ti ha spinto a farlo?

IR: L’esperienza degli ultimi anni, vicino agli ultimi della vita, mi ha talmente coinvolto e sconvolto che non potevo tenerla per me.

Dove vivevo io prima? In che realtà parziale navigavo? Io davvero non me ne capacito. Ecco, volevo servirla anche agli altri perché si potessero fare, una volta letto il libro, le stesse domande. Domande che costringono dopo ad agire.

VG: Ho iniziato il mio articolo parlando di fiducia. Quanta ne serve per spalancare il cuore a uno sconosciuto? E, al contrario, è necessario dosarla, quando ti appresti a varcare le porte di una comunità madre-bimbo?

IR: Ne serve molta a loro, che dalla vita hanno preso schiaffi e pugni, per imparare a fidarsi ancora di qualcuno.

Per chi entra in una comunità pensando di aiutare è tutto più facile.

I bimbi ti prendono il cuore, lo strizzano, poi lo accarezzano e tu puoi solo lasciarlo tra le loro mani perché stai bene così. Devi solo imparare la misura nell’accudirli perché spesso una madre c’è e il suo ruolo deve rimanere tale.

VG: Uno degli altri temi che hai esplorato è quello della maternità e della genitorialità in senso ampio. Chi è una madre?

IR: Sicuramente non è il sangue a renderci genitori e figli. Nella genitorialità sta il prendersi cura. Siamo figli di chi ci ama. Siamo madri di chi amiamo, che sia un figlio, un’amica. Siamo madri dei nostri genitori quando invecchiano.

Sicuramente non è il parto a rendere una donna madre,  non è il seme che fa un padre.

VG: Le feste, in casa tua o presso la comunità, sono state una bella sorpresa, da leggere: barbecue a base di pesce, merende a base di Coca –Cola e Nutella … Una domanda che esula dall’aspetto letterario ma che, ti confesso, non posso evitare. Come ti organizzi e dove trovi il tempo per ospitare, abitualmente, i tanti amici tuoi e dei tuoi figli in casa? Sono curiosa, svelaci qualche consiglio pratico.

IR: Se qualcuno ne ha di consigli, li dia a me.  Io navigo a vista e improvviso.

Tento di organizzarmi ma non riesco mai del tutto a farlo. Mio marito è una grande spalla, O forse io sono la sua. Diciamo che tenendoci stretti riusciamo a sopravvivere e amiamo questa rete di sentimenti che abbiamo costruito.

Oggi mentre rispondevo alle tue domande, in dieci minuti la porta si è aperta tre volte e in un attimo avevo in casa sei altissimi adolescenti “abituali”.

Quando si fidanzano (e lo fanno spesso) portano anche i fidanzati e le fidanzate

Si aggiungono figli di cuore.

E poi ci sono i nostri amici. Tantissimi e indispensabili. Abbiamo tre tavoli da unire in sala per riuscire a cenare tutti seduti. Loro sono un grande valore aggiunto, non solo per noi, ma anche per i nostri ragazzi.

Si cucina, si mangia, ci si confronta.

VG: Hai scritto: “ eppure la vita, dove noi lasciamo silenzio, spesso decide comunque di dire la sua”.  Cosa ha detto, la tua? E cosa ti dice, oggi, dopo aver raccontato la tua esperienza che, permettimi di dire, è straordinaria, in molti suoi aspetti?

IR: Ho messo in silenzio il cuore, quando non arrivava il terzo figlio, e sono arrivati tre fratelli in affido. Ma davvero non ci avevamo mai pensato.

Oggi mi dice che non bisogna mettere confini all’amore, non bisogna mettere confini tra le terre, che ogni bambino ha diritto ad una casa, ad un piatto caldo in tavola e alla certezza che una mano si avvicini al suo viso solo per fare una carezza. E che la mia voce e il mio libro sono come un messaggio dentro a una bottiglia lanciata tra le onde.

Non so a chi, non so in che parte del mondo, e non so quando, ma a qualcuno arriverà. E muoverà sentimenti e pensieri nuovi.

Siamo parte di una società a cui non si può solo e soltanto chiedere.

VG: La diversità ci fa paura, da sempre. Siamo impauriti da ciò che non conosciamo perché temiamo il cambiamento. Eppure leggendo la tua testimonianza si percepisce quanto le storie che hai narrato siano esse stesse dense di paure. Paure giustificate. Paure enormi come macigni caduti nel posto sbagliato. Secondo te, quanto conta l’affetto (l’amicizia, la vicinanza, l’altruismo) per sostenere donne così fragili e bambini che hanno bisogno di speranza?

IR: L’affetto, la cura, il rispetto del dolore vissuto sono le fondamenta su cui costruire. Sono indispensabili. Poi sono necessarie le competenze: psicologi, psichiatri, pedagogisti. Le loro paure sono cosa seria. Non passeranno con l’amore.

Ma con l’amore e l’aiuto di persone esperte impareranno a gestirle.

VG: Nel tuo libro, si percepisce il potere che l’apertura sociale genera, e non solo in termini di crescita personale. Come sei riuscita a gestire il carico emotivo che il volontariato ti ha riservato?

IR: Io non l’ho assolutamente gestito. Io ne sono stata travolta. Mi è entrato dentro, mi ha avvelenato e mi ha dato però una gran forza di reazione.

Ora combatto contro tutto ciò che mi si para davanti e mi sembra ingiusto. Busso alle porte di chiunque senza timore del nome inciso sulla targhetta.

E se non mi stanno a sentire scrivo sul mio blog che ad oggi viene letto da 39.000 persone.

Qualcuno prima o poi si fermerà ad ascoltare.

VG: Ti ringrazio, Irene, per essere stata con noi e, come ultima domanda, ti chiedo quali sono i puoi prossimi progetti, letterari e non.

IR: Al momento voglio concentrarmi su ” Dieci tazze a colazione ” sui miei ragazzi, e sulle donne che con i gruppi di auto mutuo aiuto cerco di portare fuori da ogni genere di violenza, partendo da quella psicologica, economica, fino alla violenza che siamo più abituati a riconoscere, quella dei pugni e delle ossa rotte.

Le mie giornate sono piene

Mi serve solo tempo.

E quello devo solo pregare qualche dio, non so bene quale sia il migliore, che me ne lasci ancora un pò.

Perché questa vita, nonostante il male che siamo capaci di fare, a me piace ancora tantissimo.

VG: Buona vita, Irene. Ti aspettiamo, quando vorrai, per raccontarci ancora la tua esperienza.

Si ringrazia Virginia Leoni dell’ufficio stampa AltreVoci per il file lettura omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Irene Renei, classe ’72, nata e cresciuta in Liguria, è scrittrice e autrice del blog “Donne che pensano” con ampio seguito sui social. Agente finanziario, ha sempre amato più le parole dei numeri, fino a decidere di lasciare quell’ambiente altamente performante per cercare una nuova dimensione nella scrittura. Sposata, con due figli e tre fratelli in affido diurno, è da sempre vicina alle problematiche sociali legate al ruolo della donna nella nostra società e alle molteplici dinamiche che legano genitori e figli. Nei suoi scritti tratta con particolare attenzione temi che spaziano dal mondo complesso degli adolescenti di oggi ai molteplici ostacoli delle donne vittime di un sistema che spesso le mette all’angolo, nel tentativo di sensibilizzare il pubblico a realtà che spesso ci scorrono accanto in un silenzio assordante.

Post in evidenza

Intervista a Marcella Nardi, autrice di “La Maledizione di Bashaar”.

“Se c’era una cosa in cui il fuggitivo eccelleva, era la pazienza. La pazienza del guerriero, il sangue freddo del cavaliere”. Citazione tratta dal libro.

La pazienza è una dote che Marcella Nardi, nella sua ultima opera “La Maledizione di Bashaar”, ha espresso bene, nella citazione: è legata a un’azione e al personaggio –  fuggitivo e guerriero appunto – ma durante la lettura mi sono chiesta in più occasioni quanto fosse il livello di pazienza (e minuziosa ricerca) che l’autrice ha messo in atto durante la stesura di questo romanzo che colpisce subito, in termini di accuratezza dei particolari.

Per questo romanzo ho studiato con minuzia eventi, persone reali, località e molto altro”, scrive l’autrice nella nota inziale, prima di introdurre la lista dei personaggi, e questa sua ammissioni mi è stata accanto per quasi tutta la lettura, a conferma di quanto si percepisce dal genere narrativo.

La Maledizione di Bashaar” è un giallo storico, a tutti gli effetti. L’autrice, però, non si è limitata a scegliere un’unica ambientazione: ha preferito ampliare ulteriormente la narrazione e accompagnare il lettore in un viaggio lungo secoli, in aree geografiche distanti, all’apparenza slegate tra loro.  Si parte da Gerusalemme, nel 1100 d.c. circa, e i numerosi personaggi che compaiono – e scompaiono – sono legati a una reliquia avvolta da una maledizione: cavalieri templari, monaci, balivi, magister, priori, guardiani, amanti, nobili crociati inglesi, fuorilegge… giusto per citarne alcuni. Un vasto mondo di voci, personalità, gesti, bisogni, emozioni che si affianca a temi sociali e spirituali che l’autrice ha fatto emergere. Il primo, quello che mi colpito particolarmente, è legato a una domanda-pensiero che uno dei personaggi ha citato, che non lascia indifferenti e che vi riporto:

“E tutto questo in nome di Dio! Che ne sarà di noi nel giorno del Giudizio?”

Lo stile di Marcella Nardi è intenso, schematico e meticoloso: uno stile che noi lettori amiamo ma che, in quest’opera, acquisisce ancora più fascino, in considerazione dell’ampiezza del contesto storico che ha narrato.

Non vi dico altro.

Passo la parola all’autrice che ha accettato il mio invito a tornare a parlarci di lei e del suo romanzo.

VG: Bentornata, Marcella. È sempre un piacere averti qui.

MN: Grazie, Valeria. È sempre un piacere anche per me. Saperti tra chi mi segue, ed essere presente nel tuo blog, mi rende felice.

VG: Vorrei iniziare questa intervista con una domanda che mi è frullata in testa per quasi tutta la lettura. Senza svelarci i segreti del mestiere, potresti raccontarci quale metodo hai usato per reperire le informazioni necessarie alla stesura del romanzo e poi a riordinale? Sono molto curiosa…

MN: Uso più di una fonte. Nella mia libreria cartacea ho molti saggi sul medioevo, sia in termini di momenti storici che di cenni di vita quotidiana. Ho anche dei saggi sui cavalieri templari. Ovviamente, nel tempo, li ho letti tutti. Per questo romanzo, ne ho rispolverato alcuni e poi ho “navigato” tra vari siti web a sfondo storico. Ti accenno solo a un momento di ricerca di tipo “architettura delle cattedrali”. Ricordavo che al tempo avevano inventato un sistema particolare per far suonare insieme le campane, componendo quasi una musica. Ho impiegato circa tre ore a leggere siti di architettura storica sulle campane delle chiese. È stato molto interessante e spero di aver trasmesso bene l’idea quando parlo del Mastro Costruttore e delle sue “scalate” sulla torre campanaria. 

VG: Diamo un’indicazione ai lettori che non hanno ancora letto la tua pubblicazione. Chi è Bashaar?

MN: Per chi non è molto ferrato nella storia del tempo delle Crociate, va detto che cristiani, ebrei e maomettani, nei secoli precedenti, andavano d’accordo e che Gerusalemme era la città sacra per tutte queste tre grandi religioni monoteistiche. Lasciando da parte le motivazioni storiche che hanno dato vita alle Crociate (ce ne sarebbe da parlare per ore…), diciamo che anche la Chiesa del Santo Sepolcro era un punto fermo per tutti questi credenti. Bashaar, pur essendo una figura da me totalmente inventata, è un personaggio verosimile. Bashaar è un maomettano la cui famiglia, da molte generazioni, era stata demandata a proteggere una tra le reliquie più sacre della cristianità: un pezzo della Vera Croce di Gesù intrisa del suo sangue. Ma qualcosa di terribile avviene a opera di un nobile cristiano: la famiglia di Bashaar viene ferocemente trucidata e la sacra reliquia strappata dal suo scrigno. Non volendo svelare ciò che va letto, dico solo che da quell’evento parte la trama del romanzo.

VG: Perché hai scelto proprio gli anni delle Crociate?   

MN: Amo la storia antica e, soprattutto, quella medievale. Il periodo delle Crociate, oggi molto discusso dagli storiografi contemporanei (e a giusta ragione) offre grande terreno di spunto a uno scrittore. In quel periodo sono nati i Cavalieri del Tempio, cioè i Templari, il commercio delle sacre reliquie è proliferato a dismisura circondato da mille leggende e superstizioni. Insomma… è un periodo intrigante sotto molti aspetti.

VG: Quale dei tanti personaggi di questo romanzo ti ha fatto più penare e qual è stato, invece, il primo che ti ha fatto visita?

MN: Il personaggio che mi ha fatto penare di più è stato un cavaliere Templare, realmente esistito, che a un certo punto divenne Gran Maestro del Tempio. Ne avevo spesso sentito parlare, ma, per la mia trama, avevo bisogno di sapere esattamente l’anno della morte e in quali precise circostanze fosse morto. Questo per capire quali licenze letterarie avrei potuto permettermi. Invece, il primo personaggio che mi è apparso nella mente, quando ho messo giù la trama, e a cui ho dovuto dare un nome e una connotazione ben precisa è Sir Ewart Beringar. Nella Crociata nel 1100, i cavalieri inglesi furono pochi, e tra questi alcuni si distinsero per il loro operato. Per il mio romanzo, volevo che nell’incipit affiorasse il netto contrasto tra la brutalità della carneficina, operata dai soldati cristiani, e un senso dell’onore che nei secoli è sempre stato ad appannaggio di pochi. Sir Beringar, il cui nome non è casuale (era il nome dello sceriffo nella serie Fratello Cadfael) è un uomo leale e di sani princìpi, che si rende conto di quanto una guerra in nome di Dio sia sempre sbagliata. Era questo il concetto introduttivo del mio romanzo.

VG: La superstizione è un tema che hai sparso un po’ ovunque e che ha investito molti dei tuoi personaggi. Quanto contava, all’epoca, e quanto conta oggi, nelle decisioni dell’uomo?

MN: L’essere umano è sempre stato succube della superstizione. Lo è tuttora. È un fatto risaputo che anche regnanti e presidenti siano ricorsi a pratiche di superstizione nel corso della loro vita. Il popolino ci convive giornalmente. Il gatto nero… un esempio. Nel medioevo forse la superstizione era più sentita per via di una maggiore ignoranza a tutti i livelli sociali. Oggi, comunque, si parla della presenza del maligno (oggi lo si chiama invidia o il male) direi non in modo dissimile dal passato. Sotto questo aspetto, poco è cambiato nei secoli. A mio avviso, la superstizione è una forma parallela di religione. Tutto ciò che non si riesce a capire o a spiegare, viene attribuito o a un dio o a forze superiori.  

VG: Possiamo chiederci la stessa cosa circa la religione? Religione in senso ampio che, ricordiamo, è alla base della tua opera.

MN: Sono agnostica. Da amante della storia dell’umanità, vedo quanto la necessità di credere a un’entità superiore sia stata sempre presente fin dalla preistoria. La religione ha molto influenzato l’operato della gente a tutti i livelli. Le stesse Crociate, indette in nome del dio dei cristiani, sono un esempio di come si possa arrivare a gesti terrificanti, ritenendo di avere Dio dalla propria parte. La religione ha sempre influenzato il popolo. Ironicamente, gli alti livelli di molte religioni, sono tutto fuorché veri credenti. Questo la dice lunga… 

VG: Hai mai visitato, di persona, i luoghi del romanzo?

MN: Solo Londra. Per questo ho dovuto documentarmi molto. Cosa non facile, trattandosi di un periodo così lontano nel tempo.

VG: Non c’è un unico protagonista, in “La Maledizione di Bashaar”. Possiamo definirlo un romanzo corale o preferisci non usare “etichette”?

MN: Non uso mai etichette. Avevo necessità di esprimere concetti diversi e, di conseguenza, mi sono servita di persone diverse. Però sì, lo si potrebbe definirle romanzo corale, ma in modo involontario. Direi che un romanzo corale nasce sempre dalla necessità di esprimere molte sfumature dell’animo umano che, difficilmente, potrebbero essere espresse con pochi personaggi.

VG: Hai ambientato alcune scene nelle locande descrivendoli come luoghi di accoglienza, sociali e d’incontro, oltre che di ristoro. Quanto conta l’ambientazione in un romanzo come questo? Quanto è importante per legare vicende e per la caratterizzazione dei personaggi?

MN: L’ambientazione è sempre importante, almeno io credo così, indipendentemente dal periodo storico trattato. Certo è che in un momento storico in cui non c’era la tv, niente cellulari o computer ecc… la locanda era sicuramente il luogo di incontro della gente comune. Era lì’ che, nel bene o nel male, si stringevano affari, si decideva della morte di qualcuno, si godeva delle delizie delle prostitute ecc… In senso lato, in un romanzo storico, il lettore deve poter “vedere” le scene in luoghi diversi dai nostri attuali. Dunque lo studio di come si viveva, e cercare di rappresentarlo al meglio, è importante.

VG: Il mondo gastronomico è altrettanto vasto: prodotti ittici, birra, vino, pane, zuppe… Hai creato un affresco equilibrato e molto gradevole. Fonti storiche o immaginazione? 

MN: Non è la prima vota che scrivo romanzi o racconto ambientati nel medioevo. E comunque mi sono ulteriormente documentata per dare una più ampia visione dei cibi in quel periodo. In queste cose preferisco fonti certe più che immaginazione.

VG: Parliamo ora di composizione dell’opera. Scrivi in ordine cronologico o dai la precedenza ad alcuni capitoli piuttosto che ad altri?

MN: Scrivo di fila.

VG: Quanto tempo hai dedicato alla stesura del romanzo?

MN: Poiché durante la mia giornata tipo tengo lezioni di lingua e faccio traduzioni tecniche, dedico circa 3 ore al giorno alla scrittura. Riesco ad essere relativamente veloce perché la mia editor inizia a curare l’editing già in corso d’opera, smussando e consigliando mentre vado avanti con la scrittura. Questo mi facilita tante cose e, nell’economia generale, mi permette di andare avanti in modo abbastanza veloce. In genere, scrivo 3 romanzi l’anno. È importante capire un altro dei miei metodi. A romanzo terminato, mentre si curano le tre revisioni approfondite, o editing approfondito, io inizio a lavorare sul romanzo successivo. Inoltre, essendo una scrittrice INDIE, decido io i miei tempi di scrittura e poi di pubblicazione.

VG: Parlando invece di pubblicazioni in senso più ampio. Come promuovi le tue opere? Hai qualche consiglio da condividere?

MN: Ne parlo sui social, uso una mia mailing list di persone che nel tempo ho conosciuto.

VG: Ti lascio uno spazio per comunicare con i lettori del Blog. Perché dovrebbero leggere “La Maledizione di Bashaar”?

MN: Ai lettori di romanzi storici dico che credo di aver dosato bene Storia, Intrigo, Mystery e una buona dose di “Giallo”. A tutti gli altri, dico che noi esseri umani siamo più o meno sempre gli stessi, con le stesse pulsioni, stessi sogni e stessi difetti. Questo romanzo li affronta quasi tutti i modo intrigante e… a tutti dico… ho inserito una chicca che si svolge nel 1888. Buona lettura!

VG: Grazie per essere stata con noi, Marcella.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Marcella Nardi nasce nel ridente borgo Medievale di Castelfranco Veneto. Si laurea in Informatica, campo in cui lavora per ventidue anni, tra Segrate e Milano. Nel 2008 si trasferisce a Seattle, USA, dedicandosi all’insegnamento dell’italiano, alle traduzioni tecniche e alla scrittura di romanzi. Molte sono le sue passioni: la Storia antica e medievale, la fotografia, i viaggi, la lettura, il modellismo storico e, soprattutto, una grande fantasia nella stesura di romanzi. Come amante di “gialli” e di Medioevo, Marcella si è classificata al terzo posto, nel 2011, al concorso “Philobiblon – Premio letterario Italia Medievale” con uno dei sei racconti che hanno dato vita al suo primo libro, un’antologia, dal titolo di “Grata Aura & altri gialli medievali”, la cui prima edizione si chiamava “Medioevo in Giallo”.

Nel dicembre 2014 ha vinto il Primo Premio al concorso “Italia Mia”, indetto dalla Associazione Nazionale del Libro, Scienza e Ricerca, con un racconto ambientato a Gradara.

Nel 2022, a novembre, Marcella conquista un altro importante traguardo: Riconoscimento Speciale per il genere Legal Thriller allaXII Edizione del Premio Internazionale Navarro.

Continua a scrivere e dal 2013 ha al suo attivo oltre 16 pubblicazioni. Ha creato due serie poliziesche: “Le indagini del commissario Marcella Randi(6 romanzi in cui la detective è proprio lei: quasi lo stesso nome e con le sue stesse caratteristiche, fisiche e caratteriali) e Le indagini del detective Lynda Brown(2 romanzi). Ha anche creato una serie di genere Legal thriller, ambientato a Seattle, USA: “Le indagini dell’avvocato Joe Spark”. Sulla scia dei mitici “gialli per ragazzi” degli anni ’60 e ’70, ha dato vita a una serie di Gialli Young Adult: Le indagini di Étienne e Annabella, dove due studenti universitari si cimentano a fare i detective.

Marcella Nardi ha anche scritto due romanzi mystery/storici dai titoli “Joshua e la Confraternita dell’Arca” e “La Maledizione di Bashaar”, un paranormale, un romance/erotico e alcuni racconti. Si è anche cimentata in un riuscitissimo Spionaggio/Thriller & Suspense, dal titolo “Virus – Nemico Invisibile”. Ultimi lavori: la quinta indagine dell’avvocato Joe Spark, dal titolo “Tutto Torna”; un giallo “soft/cozy” sulla scia dei romanzi gialli degli anni ’50, dal titolo “Non Toccate Jessica Jones”.

Il suo sito web ufficiale è: www.marcellanardi.com

La sua pagina autore su Amazon è: Clicca qui

La sua bacheca Facebook è:

https://www.facebook.com/Marcella.nardi.5

Il suo gruppo Facebook di Cultura e Libri:

https://www.facebook.com/groups/Marcella.nardi.scrittrice/

Post in evidenza

Recensione di “Baci all’inferno” di Ariana Harwicz, Ponte alle Grazie.

Qualcosa di minuscolo è sufficiente per essere infelice, un’ape ci punge sul gomito, il vento rompe un bicchiere, o le finestre e le porte rimangono immobili”.

Per essere infelici c’è sempre tempo, aggiungerei dopo la citazione tratta da “Baci all’inferno” di Ariana Harwicz, edito da Ponte alle Grazie e tradotto da Marta Rota Núñez e Giulia Zavagna. L’altro estremo, la felicità, è un concetto friabile, che in arte è stato amato, studiato, discusso e, che probabilmente, resterà protagonista per molto tempo ancora; è come un frammento, a volte, e dura quel poco che serve per ritornare indietro, in uno stato di ricerca e partenza. È come un circolo vizioso, in sostanza, e nel libro di Ariana Harwicz la felicità è davvero un invisibile frammento incastrato in vicende dolorose, torbide, perverse. Una fiammella che illude, che si accende e spegne a intermittenza. Una lotta perpetua, continua, debilitante.

Dopo questa premessa, ne serve una seconda, piuttosto importante: il libro non è un libro. Mi spiego meglio. Potrebbero essere due racconti lunghi, o un libro diviso a metà. A me piace inserirlo nella seconda delle due. Il due è, inoltre, un numero che ho ritrovato, in quest’opera. Come sapete, il due è considerato il numero femminile, in simbologia, è proprio due sono le donne che si raccontano in una sorta di diario intimo e crudele, spietato ma sincero. Non solo. Se penso a ciò che è doppio mi viene in mente il concetto di bene e male che coabita nell’uomo, e che in queste pagine ho ritrovato. Anzi, il lettore viene inseguito, da questo pensiero: le due protagoniste si fanno male, si sforzano di riparare, si feriscono e cercano una via d’uscita fino all’ultima parola stampata. Un altro elemento doppio che lega le due vicende è il rapporto familiare. Ne “La debole di mente”, la prima vicenda, è il rapporto tra madre e figlia a essere raccontato, nel secondo, invece, “Precoce”, una madre racconta la vita con suo figlio.

Ariana Harwicz usa il flusso di coscienza, abolisce i dialoghi e inserisce il cibo per intensificare la personalità delle protagoniste. Inoltre, leggerla è come assistere a una visione, è come guardare una fotografia.

“La mamma dorme con l’ipotermia sotto le coperte e le borse dell’acqua calda. Se si alza la temperatura, pronto soccorso. Se ha un attacco di epilessia, pronto soccorso. Se muore stanotte, sepoltura. Sono seduta sulla sedia azzurrognola di fronte al cancello, sul tavolo un piattino con formaggio e cotognata.”

Oppure:

“È impossibile raccontare una giornata intera tra le sue braccia, passata a tirarci artiglieria pesante tra le risate e il paté di cervo torturato. I tempi raggianti. Un picnic tra gli alberi, in maschera, lui coi pantaloni corti e le bretelle, io con un abito a fiorami malfatti…”

Baci all’inferno” racconta storie di disagio, solitudine, emarginazione, povertà. L’amore è vittima, malattia, dipendenza. Le protagoniste vagano, lente e disorientate, in un mondo tutto loro in cui il buio è fitto e la fatica di vivere si avverte forte. E dove l’infelicità è una condanna.

Consiglio di lettura: “Baci all’inferno” non è un every moment book. Mi piace definirlo un libro precipizio: la profondità del disagio e del dolore che l’autrice ha narrato è da centellinare, se non siete pronti a immergervi in esso.

Si ringrazia Matteo Columbo dell’ufficio stampa per la copia lettura omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Ariana Harwicz (Buenos Aires, 1977) è scrittrice, sceneggiatrice e documentarista. Dopo gli studi a Parigi si è trasferita definitivamente in Francia. Ammazzati amore mio (2012, candidato al Booker Prize), il suo primo romanzo, è tradotto con grande successo in oltre dieci lingue. Ponte alle Grazie ha anche pubblicato Baci all’inferno (2022), la raccolta dei due romanzi brevi che completano la sua Trilogia della passione.

Post in evidenza

“Racconti di Vita e Dintorni” di Maria Teresa De Donato.

“La Vita, quando affrontata in piena consapevolezza, è un tesoro di inestimabile valore e veramente degna di essere vissuta.” Citazione tratta dall’opera.

Se non ci fossero gli Altri, la nostra esistenza sarebbe un viaggio sterile, insulso, superficiale. Abbiamo bisogno di mani, menti, occhi e cuori che non siano i nostri, per crescere, affrontare salite e gustarci le discese che il destino ha in serbo per noi.

Maria Teresa De Donato, nel suo “Racconti di Vita e Dintorni”, si concentra sull’importanza della curiosità: una dote indispensabile per afferrare le possibilità che la Vita ci dona, insieme a una buona dose di semplicità e stupore. Le esperienze non sono certo tutte positive, anzi, ed è vero che sono gli “inciampi” a fornire gli insegnamenti più importanti e duraturi. È vero anche che abbiamo sempre più bisogno di bilanciare gli effetti effimeri della nostra esistenza e farlo attraverso una visione completa e profonda è sicuramente un buon metodo.

L’autrice ha raccolto venti racconti autobiografici, all’interno dei quali è sempre evidente il concetto su cui si basa l’intera opera. I racconti spaziano tra ricordi, vissuti, viaggi fisici e non, mentre la voce narrante è, a volte, ironica, ma sempre autentica. Si percepisce, insomma, il coinvolgimento che l’autrice ha provato, nella stesura dell’opera che ha ripercorso alcune delle tappe (e degli incontri) che più hanno segnato le sue scelte.

Il lettore viene così a conoscenza dello spirito battagliero che Maria Teresa ha avuto (e che secondo me ancora conserva) mentre si affaccia nel mondo del lavoro, appena terminati gli studi; della sua passione per il Tirolo, meta di alcuni viaggi; dell’amicizia con una donna Sudamericana e delle cene a base di piatti italiani e colombiani; dell’incontro con un uomo mediorientale che non mangia mai cibi bianchi…  e molti altri ricordi, tutti significativi, alcuni commoventi, altri più simpatici.

Dall’opera emerge la passione per il viaggio che non è solo la meta o il soggiorno: nel divertente “Il treno per Monaco”, per esempio, c’è un affresco della famiglia dell’autrice che incuriosisce e fa riflettere.

La diversità, inoltre, è un altro tema ricorrente. L’autrice racconta culture e abitudini che si abbracciano, che hanno molto da dire, moltissimo da insegnare e che aprono la mente, stimolando riflessioni e pensieri positivi.

Infine, l’autrice si sofferma più volte sull’importanza di lasciarsi prendere per la mano, per toccare quello stupore che, a volte, abbiamo bisogno di ritrovare.

“Era tanto che non mi accadeva qualcosa di inaspettato tanto piacevole quanto entusiasmante”.

Un messaggio che faccio mio e che vorrei diventasse un augurio per voi, cari lettori, per questo prossimo anno: che la Vita vi regali ogni giorno qualcosa di inaspettato e piacevole.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Maria Teresa De Donato, romana di nascita, dopo aver studiato lingue straniere e giornalismo in Italia, si è trasferita negli USA dove vive da 28 anni ed ha ultimato i suoi studi giornalistici presso l’American College of Journalism e conseguito cum laude le lauree Bachelor, Master e Dottorato di Ricerca in Salute Olistica presso Global College of Natural Medicine, specializzandosi in Omeopatia Classica ed in principi di Ayurveda e Medicina Tradizionale Cinese.  Un’appassionata blogger, dal 1995 ad oggi ha collaborato con varie riviste, giornali e periodici in qualità di giornalista freelance. Scrittrice eclettica, olistica e multidisciplinare è anche autrice di numerose pubblicazioni, tra cui due romanzi. I suoi libri sono disponibili su tutti i canali di distribuzione Amazon, librerie incluse.

Post in evidenza

Recensione: “I giochi sono finiti – La prima indagine dell’avvocato M.T. Smithson” di Elena Andreotti.

«Non mangi regolarmente, vero?», chiese Virginia.

«Regolarmente, sì, ma senza regola è più appropriato. Da scapolo mangio ciò che ricordo di acquistare e a volte il frigo è quasi vuoto, quando mia madre non provvede a riempirmelo. Per fortuna esistono i ristoranti».

«Da me al contrario c’è una dieta sana ed equilibrata. Per via di Jules, altrimenti anch’io farei come te. Forse peggio».

Virginia Saint Martin, personaggio chiave del legal thriller “I giochi sono finiti” di Elena Andreotti, svela due grandi verità, durante il dialogo che ho tratto dall’opera. La prima è che le mamme non smettono mai di prendersi cura dei propri figli e la seconda è che ciò che abbiamo in frigorifero dice molto di noi.

Siamo a Roma, in epoca moderna. Le prime pagine dell’opera ci presentano Marco Tullio Smithson, il nuovo protagonista del vasto mondo letterario che l’autrice ha creato nella sua fortunata carriera di scrittrice. Di lui scopriamo che è scapolo, pigro, sincero, pacifico, trascorre le sue serate in compagnia del gatto Cicerone e lavora come avvocato in un noto studio della Capitale.

Dopo questa breve ma precisa presentazione, entra in scena lei, Virginia, un’investigatrice privata ironica, pragmatica, sportiva e affascinante. Dimenticavo… anche lei è single ma ha un uomo, nella sua vita: il figlio adolescente Jules.

Entrambi si ritrovano coinvolti in un’indagine misteriosa: una giovane e ricca donna sembra essere svanita nel nulla.

Gli intrecci iniziano subito: in altre occasioni ho citato la precisione dell’autrice che non usa poeticismi o rallentamenti per entrare nel vivo. Questa sua particolarità, insieme a un buon uso di cliffhanger, mi ricorda molto gli autori nordeuropei e, nel complesso, riesce a far emergere una sempre gradevole lettura. Lettura che resta lineare, ben comprensibile, coinvolgente.

Le descrizioni, invece, più puntigliose e ricche di particolari, hanno attribuito valore al romanzo. Vi riporto un esempio esaustivo:

«Entrò nell’appartamento al primo piano dov’era ubicato il suo ufficio: un ingresso abbastanza ampio adibito a sala d’aspetto, con le poltroncine comode e delle riviste di settore sparse su un tavolino. Superata una porta a vetri c’era la postazione della segretaria: inoltre, in quell’ampia stanza, affacciavano altre tre porte: …»

L’altra nota di rilievo, ne “I giochi sono finiti”, è da attribuire ai dialoghi. L’autrice ne ha fatto un ottimo uso: grazie a questi, infatti, non solo si accede con maggiore facilità all’indagine, ma la conoscenza di Marco Tullio e Virginia è più friendly.

I due protagonisti mostrano la loro personalità con semplicità, ed è stato interessante assistere alle riflessioni circa il ruolo della donna all’interno di un matrimonio, dei compromessi familiari, di quanti sacrifici servano per crescere un figlio da soli.

Le personalità, inoltre, sono state raccontate anche attraverso un viaggio gastronomico a base di maritozzi con la crema, pranzi in riva al mare a base di pesce, tonnarelli al sugo di pecora.  Elena Andreotti ha fatto un buon uso dei piatti migliori della nostra cucina in generale; la sequenza che ho preferito, e che meglio rappresenta questo concetto, è quella a partire da pagina cinquanta circa, quando Virginia prepara una pizza fatta in casa per Jules e Marco Tullio.

Ultima nota di merito va alla capacità dell’autrice di legare i tanti personaggi che, negli anni, sono stati i protagonisti della sua fantasia letteraria. Anche in questo romanzo torna uno dei più conosciuti, in sostegno alle indagini, e la sua apparizione è stata una gradevole conferma. Ma non sarò io a svelarvi il suo nome.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Biografia dell’autrice:

Elena Andreotti è Sociologa con perfezionamento in bioetica. Ha lavorato per circa venti anni nella P.A. dove si è occupata a lungo di informatica, partecipando a progetti riguardanti il sistema informativo aziendale e curando la formazione dei colleghi. Attiva nel volontariato, attualmente cura la formazione dei volontari. Ha collaborato per una decina d’anni con un periodico locale, occupandosi della rubrica di bioetica. Appassionata di pittura, fotografia e macrofotografia che pratica dilettantisticamente, ma con buoni risultati. Lettrice onnivora, predilige la letteratura ‘gialla’ e fantascientifica classica. Dal 2018 scrive libri gialli, pubblicati su Amazon. Ha scritto un sick_romance e una novella natalizia.

 Libri già pubblicati

Li trovate nella Pagina autore di Amazon

(https://www.amazon.it/Elena-Andreotti/e/B07PMRP5LY)

•          Blog personale: Non solo campagna – il blog di Elena (https://nonsolocampagna.wordpress.com)

•         

•          Blog autore: Elena Andreotti scrittrice

https://elenaandreottiscrittrice.wordpress.com/

•          Profilo Facebook: Elena Andreotti

•          Pagina Facebook Non solo Campagna

    Profilo di Instagram @elena.andreotti.autrice

(https://www.instagram.com › elena.andreotti.autrice)

Post in evidenza

Recensione di “Le filatrici della Luna” di Caterina Lerici, Panesi Edizioni.

Fabrizio Caramagna afferma che:

“Esistono luoghi che respiri e senti tuoi. Come quelle persone che, anche se non hai mai incontrato, conosci da sempre”.

Questa citazione mi sembra appropriata, per presentarvi il romanzo “Le filatrici della Luna” di Caterina Lerici, pubblicato da Panesi Edizioni.

Francesca è la protagonista: una donna ferita nell’anima e nel corpo che fugge dalla città e dalla sua vita in cerca di un luogo che possa accogliere le sue paure e la sua solitudine. L’arrivo a San Martino, alla locanda Gallo Rosso, e la conoscenza dei suoi abitanti segna l’inizio dell’avventura di Francesca.

San Martino è un luogo magico e uno strato di mistero sembra proteggere il ristorante con camere dove alloggia Francesca. Non solo, un’inspiegabile energia volteggia nel paese, e soprattutto, ne sono carichi i personaggi che lo abitano: Erminia, Leonora, Giana, Luisa. Di storie femminili è ricco, il romanzo: e questa è una delle prime particolarità che incontra il lettore. Sono storie dolorose che ripercorrono quasi un secolo di storia e che s’intrecciano al presente per spiegarlo, per accettarlo, per ricordare che veniamo da lontano e che ciò che siamo è la somma di tanti elementi, alcuni dei quali sono da comprendere.

Il luogo è, dunque, un elemento fondamentale: è una dolce metafora che accompagna la protagonista nella ricerca di una nuova sé grazie all’incontro con nuove vite e nuove esperienze.

La novità è un altro aspetto che torna spesso, durante la narrazione. Francesca, infatti, affronta scoperte e, senza apparentemente volerlo, lotta contro lo smarrimento e la solitudine che tanto l’hanno fatta soffrire. Uno dei passaggi più significativi avviene, non a caso, nella cucina del Gallo Rosso, durante uno dei tanti consigli che Erminia prescrive a Francesca. Ho deciso di riproporvelo in maniera integrale perché, al contrario, avrei sciupato il messaggio che questo personaggio – forse il più affascinante dell’intera opera – ha rivelato:

«No, non mi piace cucinare», ribatté con decisione.

«Sono contenta, così potrai scoprire un nuovo piacere. Qui avrai modo di fare tutti gli esperimenti che vorrai. Cucinare è come creare e si possono fare opere d’arte. Ed è qualcosa che puoi condividere con tutti e che tutti capiscono.»

«Ma io non voglio imparare a cucinare. Non ho tempo.»

«Il tempo si trova. Abbiamo sempre più tempo di quello che pensiamo, e cucinare ti piacerà. Colori e profumi possono condurci in un altro spazio e in un altro tempo, allontanarci da noi stessi. È una forma di meditazione facile e immediata. Tutti dovrebbero passare un po’ del loro tempo in cucina…”

L’effetto benefico della cucina, degli antichi sapori, del gusto, dei profumi legati alla terra è un elemento che torna spesso nell’opera e che esalta tutti i concetti che animano il romanzo: l’amicizia, l’amore, la speranza, il benessere olistico, l’affetto, la malattia, la solitudine, l’incertezza, la scelta del proprio futuro (e del luogo in cui vivere), l’equilibrio, la storia del passato, la semplicità… giusto per citarne qualcuno.

“Le filatrici della Luna” può essere inserito nel gruppo dei romanzi corali: accanto a Francesca, infatti, intervengono altri personaggi, anche attraverso la narrazione epistolare. L’effetto è un’alternanza di fatti, contesti storici, emozioni e legami tutti da scoprire.

L’ultima nota: il romanzo è diviso in due parti e non credo sia un caso. Rappresenta in maniera efficace il significato di prima e dopo, è di ciò che, mi piace pensare, sia a tutti gli effetti una second life.

Si ringrazia l’editore per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Caterina Lerici è nata a Sestri Levante (Ge) nel 1958. “Questo romanzo è nato da un sogno notturno, poche visioni frammentarie. Il sostegno del prof. Francesco Dario Rossi ha fatto sì che le immagini si trasformassero in parole e in una storia”.

Post in evidenza

Recensione: “Il mistero dei sei tiramisù” di Maria Cristina Buoso, Collana Città in Giallo.

Cosa succede a Padova, nel bel quartiere in cui abbiamo lasciato Caterina Angeli – ex Commissario Capo della Squadra Mobile della Questura – e Claudia Tini – il Commissario Capo in attività? Spero ricorderete l’intervista con l’autrice – Maria Cristina Buoso – durante la quale presentò il progetto “Città in Giallo”, della sua passione per i libri gialli e, la nota finale che ci anticipava un seguito… per per chi se lo fosse perso può recuperare la lettura qui.

Il mistero dei sei tiramisù” offre la stessa atmosfera mista tra il dolce e la suspense del primo episodio e gran parte dei personaggi che abbiamo apprezzato: insieme a Claudia e Caterina, tornano anche Alice ed Elena – le proprietarie della “LibeRoomCat”, il bar-libreria-biblioteca che, in quest’avventura, gioca un ruolo ancor più importante e centrale. I volumi sono autoconclusivi, ma leggerli nell’ordine di pubblicazione fornisce quel fil rouge che a me piace sempre.

Il titolo anticipa qualche elemento della trama (ma non l’azione iniziale, quella che dà il via alla vicenda): una figura sospetta si aggira nel quartiere e sembra puntare la sua attenzione proprio a sei tiramisù. Caterina, Claudia, Alice ed Elena uniscono forze, curiosità e dolci abitudini per scoprire chi vuole per sé i tiramisù di Elena. Al gruppo si aggiunge Andrea, la veterinaria, la quale partecipa attivamente ed entra così a pieno diritto in questo romanzo giallo al femminile.

Le donne sono le protagoniste e l’autrice ci presenta un bell’affresco ricco di personalità, solidarietà, amicizia e sostegno. I momenti più dolci sono ben rappresentati da crostate appena sfornate, da marmellate (quella al pompelmo, pere e mele è la novità del momento) e cappuccini alla mandorla, da tazze di tè con zenzero e limone, e da una pizza calda servita a un ospite speciale… giusto per citarne alcuni.

Un altro bel messaggio arriva più o meno a metà dell’opera, quando Caterina scambia suggerimenti culinari col figlio, al telefono. E poi, nasce una conversazione che ho adorato, ve ne propongo un assaggio:

“Facciamo così, appena torna a casa, ci troviamo tutti insieme per un bel pranzo di famiglia”

“Anche papà?”

“Certo, lo sai che tra noi non ci sono problemi…”

La conversazione continua e ciò che emerge è un contesto di grande valore. L’autrice ha voluto esprimere la forza di una donna – Caterina – che come si evince, tiene molto all’unione famigliare, nonostante la coppia non sia più legata. In questo passaggio, c’è molto altro da apprezzare: il rapporto tra madre e figli (Caterina è madre di Kalena e Amos) e quella libertà di andare e tornare che ogni madre vorrebbe insegnare ai propri figli.

Ultima nota: anche per questo romanzo l’autrice si è ispirata a un grande classico che è, in questo caso, “L’avventura dei sei Napoleoni” un racconto di Arthur Conan Doyle.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Maria Cristina Buoso scrive le prime cose quando era giovanissima, inizia con fiabe e poesie crescendo amplia la sua scrittura con racconti brevi, copioni, romanzi, gialli, thriller e altro. La poesia “Aiutami” è stata inserita nell’Antologia Multimediale “Una poesia per Telethon”, a scopo benefico (2004). La poesia “Pace in Guerra” nel concorso indetto da A.L.I.A.S.  (Melbourne – Australia), ha ricevuto la Menzione D’Onore. La poesia “Bugie” (Stones of Angles) è stata inserita nel Vol. 6 – In Our Own Words: A Generation Defining Itself – Edited by Marlow Perse Weaver U.S.A. (2005). Ha vinto il terzo premio nel Concorso Letterario “Joutes Alpines” dell’Associantion Rencontres Italie Annecy (Francia) per la Sez. Prosa (Italia) con il racconto “Il vecchio album” (1997). Questi sono solo alcuni dei vari riconoscimenti che ha ricevuto nel passato. Recentemente le è stato conferito il Certificato di collaboratrice della China Writers Association e del Club dei Lettori della Cultura orientale e Letteratura cinese, tramite Fiori Picco, per il suo impegno nella divulgazione della cultura asiatica nel suo blog.

Pubblicazioni recenti : nel 2017 “Anime”.  Nel 2021 “Schegge di parole”,  “Vernissage”, “Delitto al condominio Magnolia”. Nel 2022 “L’Incidente”, “Il mistero dei sei tiramisù”. Alcune sue poesie sono state inserite in “DONNE D’AMORE: Antologia poetica al Femminile”.

I suoi contatti social sono:

https://mariacristinabuoso.blogspot.com/

https://mcbuoso.wordpress.com/      (blog diventato personale)

https://www.instagram.com/mcbmipiacescrivere/

https://www.tiktok.com/@mcb2880

https://www.facebook.com/groups/366743647118908 –  Il Mio Salotto LetterArte…

Stesso nome “LetterArte” anche in Telegram e in Wavefull

Post in evidenza

“L’angelo custode – Un’indagine di Woodstock” di Leo Giorda, Ponte alle Grazie (Adriano Salani Editore).

Woodstock rimase per un attimo perso in quel pensiero, finendo di sorseggiare il bicchiere di Morellino di Scansano. Avvertì improvvisamente il peso della responsabilità che aveva accettato. Due vite ancora tutte da vivere dipendevano in parte dalle sue azioni. Il pensiero lo atterrì per un istante”, citazione tratta dal libro.

Immaginate un’alba romana, densa di promesse e sfumature, in una notte calda di inizio estate. La luce naturale sembra prendersi gioco delle ombre cittadine e le strade silenziose si preparano ad accogliere tanti diversi destini. Pensate a un commissariato di quartiere, tra il centro e la zona sud della città, dove le notti sono quasi sempre tranquille, soprattutto in estate. Un’alba tra tante, bella e potente, immacolata e generosa. Al commissariato San Giovanni, tuttavia, questa stessa luce è un bagliore oscuro, maligno: Giacomo Chiesa – il vicequestore – e il suo staff vengono catapultati in una vicenda drammatica, dai contorni perversi: un cadavere amputato è stato trovato in un cassonetto e la sensazione che niente sarà più come prima diventa certezza.

Questo è il quadro che accoglie il lettore, appena egli si addentra ne “L’angelo custodeUn’indagine di Woodstock” di Leo Giorda, edito da Ponte alle Grazie. L’atmosfera misteriosa è evidente, già dalle prime battute e, in queste prime pagine, l’autore presenta due dei tre principali personaggi che parteciperanno attivamente allo svolgimento dell’indagine. Chiesa, per l’appunto, un vicequestore severo, austero, rigido e certo nelle sue certezze e Claudio Gatto, il principale sospettato, un arrendevole pianista di un Lounge Café,

Durante le prime venti pagine circa, si delinea con chiarezza una particolarità che l’autore ha usato spesso, durante la narrazione: lo stesso momento raccontato da diversi punti di vista e di azione, come una specie di file rouge cinematografico (ma, senza svelarvi troppo, nella lettura ci sono diverse citazioni che denotano l’interesse dell’autore nei confronti della filmografia). Altro particolare degno di nota: la narrazione talvolta si interrompe per lasciare il posto alla voce intima e interiore del protagonista del capitolo: l’autore scava e il lettore resta lì, a cercare di capire la psicologia, il comportamento, il passato e, ovviamente, la trama.

L’autore fa entrare in scena il personaggio sul quale ha puntato gran parte della narrazione – Adriano Woodstock Scala –  con una ben costruita azione, dopo la presentazione dei primi due. Nella quarta di copertina trovate la descrizione di questo personaggio che, dopo la lettura, continua a piacermi.

 “Woodstock ha un dono. Quando fa uso di droghe diventa capace delle più acrobatiche deduzioni: uno “Sherlock Holmes tossico”, come lo definisce un cliente. E mette le proprie abilità al servizio dei disgraziati, dei derelitti a cui nessuno mai presterebbe aiuto”.

Woodstock è proprio così. È un personaggio controverso, di non facilissimo adattamento letterario, ma creato su misura con originalità (i suoi brainstorming sono stravaganti ma geniali). Di lui si apprende molto, della sua vita, dei suoi affetti, del suo passato e della sua propensione a puntare lo sguardo sugli ultimi, i perdenti, quelli contro cui si scaglia la società. Lo sfondo, come già detto, è la Capitale: una città che corre, spesso incurante, spesso distratta. I quartieri scelti – Testaccio, Vaticano – sono lì, sempre presenti a ricordare al lettore quanto sia importante l’ambientazione:

Il lungotevere all’ora di pranzo era un oceano di macchine. «Accendo la sirena, dottore?» chiese l’agente alla guida. «No, lascia perdere» rispose Chiesa distratto; stava guardando fuori dal finestrino oscurato del sedile posteriore. Le orde di turisti invadevano da ogni parte del mondo il lungofiume, godendosi il caldo dell’estate romana”

Un ulteriore nota che ti aspetti (ma non per questo banale) è l’uso di qualche espressione dialettale che conferma lo stato primario della città. La sorpresa è stata, invece, la comparsa di qualche battuta in dialetto siciliano. Un buon meccanismo, questo, per alleggerire la trama. La trama, infatti e senza svelarvi troppo, di leggero non ha proprio nulla, anzi. La perversione, il sopruso, la cattiveria e la brutalità, senza una nota di colore come questa, avrebbero reso il romanzo lugubre e avrebbero cancellato qualsiasi possibilità, qualsiasi speranza. L’autore, inoltre, in alcuni passaggi, ha voluto osare miscelando il Bene e il Male: le azioni alle quali mi riferisco sono stimolanti, per il lettore. I personaggi vacillano, le loro certezze non sono più tali, le loro abitudini si modificano e si adattano a un cambiamento. Seppur indirettamente, il lettore non può esimersi dal porsi delle domande circa la gestione delle relazioni sentimentali, del senso di giustizia, del potere dell’amicizia, dell’applicazione delle regole e, ultimo ma non ultimo, del grave danno che l’odio è capace di fare.

L’ultima osservazione è dedicata alla sfera enogastronomica. Per attribuire enfasi alla narrazione, definire al meglio la scena e la personalità dei personaggi, non mancano riferimenti a cocktails esotici, caffè offerti e rifiutati, limonate e calici di Morellino di Scansano. L’autore, infine, si avvale di una ricca pianificazione culinaria, all’insegna di piatti che raccontano molto più di quanto si pensi. Uno dei piatti che l’autore ha scelto, e che vi voglio segnalare, è uno dei classici della nostra cucina, forse il piatto che rappresenta al meglio la sfera familiare: i fusilli al pomodoro. Non a caso, dunque, sono protagonisti di un momento speciale, nella trama, e non a caso in questa scena lo stesso Woodstock s’infuria parecchio, quando torna a casa e si accorge che Chiesa li sta divorando, al tavolo della sua cucina, e che è stata sua mamma a prepararglieli. Chiudo la mia segnalazione con i cannoli siciliani, una golosità che l’autore ha inserito con astuzia e che mi ha sorpresa, in positivo. Sapete, gli esperti non hanno ancora ben chiara l’origine del dolce siciliano ma, alcuni di loro, sostengono che siano state le monache di clausura a variare un’antica ricetta araba e a farli diventare come oggi noi li conosciamo. Un legame tra Woodstock, i cannoli siciliani e l’indagine c’è. Ma lo lascio scoprire a voi.

“L’angelo custode – Un’indagine di Woodstock” è una lettura che racchiude molti significati. Uno di questi è il cambiamento. Potreste trovare, in queste pagine, risvolti inattesi.

Si ringrazia l’ufficio stampa per la copia cartacea in omaggio.

Nota biografica dell’autore:

Leo Giorna (1994) è nato e cresciuto a Roma. A venticinque anni, dopo la laurea in Beni culturali e la specializzazione in Storia dell’arte, comincia a viaggiare per l’Italia e l’Europa mantenendosi con lavori vari e sempre coltivando il suo sogno della scrittura. L’angelo custode è il suo primo romanzo.

Il sito della casa editrice è: www.ponteallegrazie.it

Post in evidenza

Intervista a Marco Lazzaro, autore di “Kaleidos”, Edizioni Convalle. Prefazione di Silvana Da Roit.

Il caleidoscopio emana un fascino immortale. Il suo cuore – composto da forme, luci e colori –  crea illusioni ottiche dal potere ipnotico e, in ambito letterario, ha funzione di figura retorica nell’entrelacement.

Silvana Da Roit spiega in maniera chiara ed esaustiva questo concetto, nella prefazione che ha dedicato a “Kaleidos” di Marco Lazzaro, Edizioni Convalle:

 “I frammenti di vetro sono nient’altro che le belle immagini o caratterizzazioni dei personaggi che muovono i racconti contenuti in questa raccolta.”

Mi sono avvicinata alla lettura dell’opera, dunque, con un’idea precisa: una moltitudine di personaggi ed eventi slegati tra loro ma figli di una stessa penna. Il principio delle raccolte di racconti nati dalla fantasia di un unico autore è, per quanto mi riguarda, proprio questo: riconoscere una nota di stile, un particolare vezzo, una punteggiatura ricorrente… l’animo dell’autore insomma.

Con “Kaleidos”, invece, questo principio è stato archiviato, dimenticato, per buona parte della lettura. Una delle particolarità che ho riscontrato – in maniera sorprendente – è stata proprio quella di perdermi nelle voci dei personaggi, come se, in alcuni casi, fossero loro stessi ad aver descritto la trama, gli eventi (alcuni tragici, altri più ironici), il loro ego.

Di questa capacità e di molto altro ancora, ho deciso di parlarne con lui, l’autore di questa raccolta: Marco Lazzaro.

VG: Benvenuto, Marco.

ML: Ciao Valeria.

VG: Chi è Marco Lazzaro lontano dalla scrivania?

ML: La risposta non è semplice, potrei dire che è tante persone quante quelle presenti nella raccolta. Nella vita faccio il consulente informatico e la sera mi trasformo in uno scrittore 😊

VG: Come e in che occasione nasce la passione per la narrazione?

ML: È una passione che mi porto dietro sin dall’infanzia. Già all’elementari riempivo quaderni di storie e da allora non ho mai smesso di usare la fantasia.

VG: Parliamo di “Kaleidos”. Come detto, hai creato una notevole quantità di personaggi. Chi di loro hai conosciuto per primo? Chi è stato quello che ti ha fatto più faticare? Il più vicino a te, per carattere?

ML: Il primo (e non è un caso) è il protagonista del primo racconto della raccolta: “Appuntamento al buio”. È stato il primo racconto che ho fatto leggere a Stefania Convalle e quindi occupa un posto speciale perché è stato lui a darmi il coraggio di credere in me stesso.  
Nessuno mi ha fatto faticare. Avevano tutti qualcosa da dire ed è stato facile riuscire a raccontare le loro storie. Ho trovato più difficile scegliere quali storie includere e quali, invece, scartare. Quindi posso dire che quelli che mi hanno fatto faticare di più sono quelli che non sono inclusi nella raccolta.

Il più vicino è il protagonista del racconto “La caccia”. Anch’io come lui ho passato un periodo in cui più che vivere sopravvivevo. E come “il Ragno” c’è stato un evento che mi ha fatto ritornare al presente. Certo, non sono diventato un cacciatore di taglie però quando mi sono innamorato della mia compagna sono riuscito a riprendere la mia vita in mano e a ricominciare da capo. 

VG: Ho anticipato una particolarità che, da lettrice, mi ha stupito (e che ho apprezzato). Hai un talento nel raccontare da un punto di vista sempre diverso, tanto che, in alcuni passaggi, ho faticato a ricordare che la penna fosse sempre una. Senza svelarci i tuoi segreti, ma sarebbe bello se ci raccontassi quali sono le tue fonti di ispirazione.

ML: Credo che il fatto di aver fatto così tanti personaggi diversi risieda nell’aver sfruttato per ogni racconto un’ispirazione diversa. Per esempio per il racconto “Dieci minuti” è stato il ticchettio dell’orologio a dare il via all’idea, oppure in “Esisto?” è stato il sapore delle ciliegie a portarmi in oriente da Junko e alla sua Tokyo dai ciliegi in fiore. E potrei andare avanti per ogni singolo racconto. Penso che tutti i nostri sensi siano una fonte costante di ispirazione. A volte basta chiudere gli occhi, altre tenerli ben aperti perché attorno a noi ci sono già le storie che scriviamo.

VG: Nei racconti hai inserito molti riferimenti a problematiche attuali: i problemi economici in “La firma”, il dilemma tra sogno da realizzare e attività lavorativa in “Il Grammofono”, giusto per citarne un paio. Che ruolo ha, secondo te, uno scrittore nella società odierna afflitta da problemi e ostacoli?

ML: Quando scriviamo una storia lasciamo una traccia nel mondo che, se siamo fortunati, verrà letta anche dalle prossime generazioni. Se da un lato descrivere un problema attuale permette al lettore di immedesimarsi in una situazione che potrebbe anche vivere in prima persona, dall’altro da un’immagine ai posteri di quali fossero e di come venissero vissuti i problemi in questa generazione. Quindi uno scrittore ha un ruolo duplice: uno da cronista per coloro che verranno dopo di noi e l’altro di fornire una valvola di sfogo per chi ha bisogno di immergersi in una storia in cui possa immedesimarsi.

VG: “Magari puoi ancora salvarti” è un racconto che mi ha colpita, tanto che ho voluto rileggerlo dopo aver concluso la lettura del tuo libro. Hai creato una tensione che mi ha emozionato e che è parsa quasi reale. Quanto tempo, per scrivere un racconto del genere? E, se possibile, ci racconteresti quando lo hai scritto?

ML: In totale ci sono volute circa tre ore. Visto che nel tempo libero gioco di ruolo con un gruppo di amici e faccio il narratore ho pensato che sarebbe stato interessante scrivere un racconto utilizzando la seconda persona. È stato impegnativo perché non è un punto di vista molto utilizzato però ho notato come l’utilizzo del tu desse la sensazione al lettore che il racconto si stesse rivolgendo proprio a lui, come se fosse il protagonista della storia.

VG: Con quale criterio hai scelto le ambientazioni? Ho notato che hai fatto un ampio giro intorno al mondo…

ML: Mi piace molto viaggiare e siccome non ho né il tempo né la disponibilità economica per poter girare il mondo allora ho deciso di farlo attraverso i racconti. Spero che il viaggio sia stato piacevole da leggere quanto per me scriverlo 😊

VG: Ho notato che hai usato il momento della cena come momento chiave in molte scene. Marco preferisce la colazione, il pranzo o la cena?

ML: Mi hai scoperto… sono un buongustaio. Ti risponderei che la cena di sabato è la mia preferita perché è l’unico giorno in cui ho il tempo di preparare qualche ricetta un po’ più complessa oppure possiamo andare a mangiare in qualche ristorante particolare a scoprire nuovi sapori.

VG: “Lascio che il vino, rosso e corposo, riempia il bicchiere. Mi godo il suono del liquido contro le pareti del vetro, quel rumore così tenue ha il potere di calmarmi, allontanando dal cervello lo stridio metallico delle macchine che lavorano il ferro” hai scritto nel racconto “Vino rosso”. Qual è il momento più stressante per un autore? Quali azioni sono indispensabili alla gestione di tale stress?

ML: Il momento più stressante per me è quando si incomincia a scrivere. Tutti i giorni è una lotta con se stessi per trovare l’ispirazione, la diga da rompere per lasciare andare la penna (o la tastiera). Il vino è una opzione valida, ma in alternativa per me basta isolarsi e mettere della musica classica. A quel punto chiudo gli occhi e mi lascio avvolgere dalle sensazioni e parto a scrivere.

VG: Raccontaci, se puoi, i tuoi prossimi progetti, letterari e non.

ML: Partendo da quelli non letterari sto prendendo  da inizio 2022 lezioni di canto e lettura espressiva così da completare il mio profilo da artista 😊 Stiamo persino preparando un musical per dicembre.

Invece per quanto riguarda i progetti letterari posso annunciare che sto scrivendo il mio primo libro. Posso anticipare che si tratta della storia di una giovane ragazza che dovrà fare i conti con il passato dei suoi genitori che ricadrà su di lei, che lo voglia oppure no.

Poi ci sono altre cose in ballo ma quelle sono top secret 😉

Si ringrazia l’editore per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autore:

Cosa posso dire di me? Partiamo dalla parte banale:

Sono Marco Lazzaro e ho 33 anni. Nel corso della mia vita ho avuto il piacere di esplorare sia il mio lato più analitico (infatti faccio il consulente informatico) che la mia vena più artistica. Da bravo esponente del segno della bilancia mi trovo proprio al centro di questi mondi. Amo usare la fantasia e creare mondi dove potersi immedesimare tanto quanto adoro usare la logica per risolvere i problemi che affronto al lavoro. Ho da meno di un anno scoperto che mi piace anche cantare, ma per ora son troppo timido per esibirmi davanti al pubblico (e poi sono ancora troppo stonato per farlo 😊).

Ho pochi amici e sono molto introverso. Insomma con delle premesse del genere potevo diventare solo uno scrittore oppure un serial killer.

Il sito internet dell’editore è: http://www.edizioniconvalle.com

Post in evidenza

Boodracconti : “Diciott’anni” di Annalisa Scaglione

Voglio condividere con voi un racconto che ho ricevuto in dono dall’autrice Annalisa Scaglione. Non è uno dei boodracconti ai quali siete abituati ma sono convinta che saprà emozionarvi. Esattamente come è successo a me.

“Diciott’anni”

«Ho diciott’anni… e sono libera».

Aldo non si mosse, salvo un’impercettibile oscillazione del cappello, che mi sembrò scendergli di poco sulla fronte.

Seduta sulla panchina, lei aspettava.

Gli orecchini di acquamarina le donavano molto, perché avevano una particolare sfumatura che si avvicinava tantissimo al colore dei suoi occhi liquidi. Mosse piano la mano destra e aprì la borsetta di pelle marrone appoggiata sulle gambe. Tirò fuori il fazzoletto ricamato, quello con la sua iniziale, e asciugò veloce le lacrime che ultimamente uscivano spesso, da sole. Non stava piangendo, l’oculista aveva detto che i condotti lacrimali avevano subito una qualche lesione ma lei non voleva sentir parlare di interventi, i suoi fazzoletti sempre profumati andavano benissimo per arginare il problema.

Mi accorsi che Aldo stava sbirciando, anzi, proprio le guardava le mani. Finalmente inclinò lievemente la testa, sembrava volersi appoggiare sulla spalla imbottita del cappotto vermiglio che lei portava aperto. Le diceva qualcosa ma io non riuscivo a sentire, bisbigliava. Poi lei sorrise guardando avanti, verso il prato ancora bagnato come i suoi occhi che brillavano di pura emozione. Aldo si alzò sotto il suo sguardo rapito ma non andò lontano, giusto quattro passi per chinarsi e raccogliere un paio di margherite, quelle piccole che crescono spontanee e ce ne sono tante in primavera.

Tornò a sedersi e lei abbassò il viso.

Sapeva che cosa stava per succedere. Stava seduta e aspettava i suoi fiori. Senza nemmeno sfiorarla Aldo infilò le margherite nel fermaglio che le raccoglieva ordinatamente i lunghi capelli, e lo fece senza esitare.

E allora lei si sentì bella.

«Ho diciott’anni… e sono libera». Lo disse decisa, stavolta.

Si cominciava a sentire nell’aria quel profumo dei pini che riempie i polmoni di buono – respira profondo che fa tanto bene, mi diceva la nonna all’uscita da scuola – e ho inspirato più forte, così, per istinto, fermandomi al massimo per qualche secondo; e poi via tutta l’aria, a restituire quel buono che mi aveva saturato il petto e a salvare il bottone centrale della mia camicetta nuova.

Aldo le si era avvicinato un tantino, giusto quel poco per sfiorarle la gamba con i pantaloni blu un po’ demodé – ma come si veste? – e lei lasciava fare. Era questo quello che voleva? Poi le ha messo il braccio insicuro intorno alle spalle, quasi senza appoggiarlo, lei ha inclinato la testa verso destra e ha appoggiato piano la guancia.

Io sapevo quello che stava per succedere.

A me è successo prima dei diciott’anni, e il ricordo era tanto dolce, lontano ma dolce. Mi veniva da ridere al pensiero, perché in quarta elementare ero fermamente convinta che avrei dato il mio primo bacio a dodici anni. Eh sì, proprio così. In quel periodo con Gaia e la Clo passavamo le ricreazioni e i pomeriggi insieme a pianificare questa nostra prossima, elettrizzante esperienza. E così una mattina – eravamo affacciate alla finestra della IV B che dava sul bel cortile – con una sicurezza che solo allora sono riuscita ad avere sul mio futuro, ho esclamato:

– Io il primo bacio lo darò a dodici anni. Come Candy Candy, nella puntata di ieri ha baciato Antony, l’avete vista?

Gaia era perplessa ma la Clo, come sempre, aveva esagerato rincarando la dose delle aspettative:

– Io invece voglio farmi fotografare nuda ma con la faccia coperta, così non mi riconoscono.

Gaia era ancora più muta.

– Ma sei matta? – ero sbottata.

La cosa era finita lì. Non so se la Clo abbia realizzato il suo sogno, ma quel primo bacio io l’ho avuto per davvero. A dodici anni, come Candy Candy.

Ed eccomi qui, quasi per caso, quasi a rubare il momento dolce e sublime del primo bacio di un’altra, a rivivere come spettatrice tutte le attese di quel momento magico e intimo che ti fa sentire donna, forte, potente come non mai.

Aldo sollevò piano l’altra mano ad accarezzarle il viso sfiorandolo appena, come nei film¸ le voltò piano la testa e inclinò la sua, trovando finalmente nuove labbra già pronte. Mi sembrò il bacio più lungo della storia del cinema. Le lacrime che ora continuavano ad uscirle erano diverse, erano turbamento, felicità, speranza di tutto il bello che sarebbe arrivato. Era questo che lei voleva.

Una goccia sul braccio. Il vento, in pochi minuti, aveva riportato in cielo le nuvole e in me la chiara consapevolezza di trovarmi lì per una precisa ragione. Dopo un nuovo, largo respiro – non troppo per via della camicetta – mi sono avvicinata alla loro panchina.

«Ciao nonna, sta piovendo».  Restò ancora un attimo attaccata alle labbra del signor Aldo e poi si girò verso di me. Non volevo lasciarle il tempo di parlare, di riconoscermi anche solo per un attimo, di intuire tutta la distanza fra la sua mente e la realtà intorno, fra i suoi novant’anni di oggi e suoi diciott’anni di ieri, quelli dell’incontro con mio nonno, l’unico uomo della sua vita, il grande uomo di tutta la vita, ormai da tre lustri non più fra noi.

«Li senti i goccioloni? Guarda, la tua borsetta si sta bagnando. Dobbiamo rientrare nonna, non abbiamo l’ombrello. E poi piove anche per il signor Aldo, anche lui adesso si ritira, ecco che arriva Larisa per accompagnarlo a casa».

La aiutai ad alzarsi, e anche lui si alzò. Stavano attaccati, sottobraccio. Larisa portava due ombrelli, dalla finestra della cucina aveva visto che il tempo era di nuovo cambiato.

Mentre Aldo si allontanava spedito con la sua badante abbracciai la nonna, stringendola a me sotto l’ombrello. Lo guardava rapita, sperando in ultimo gesto di quell’uomo che le aveva rapito il cuore e i sensi. E dopo pochi passi Aldo si fermò, si voltò, e con il sorriso furbetto di un vecchio di vent’anni le gridò A presto!

Le lacrime della nonna scendevano con la pioggia che già ci aveva inzuppate e i suoi occhi brillavano come il sole delle giornate più belle.   

Nota biografica dell’autrice: Annalisa Scaglione è nata a Genova nel 1970. Ha compiuto studi classici ed è laureata in Giurisprudenza. Nel 2020 ha esordito con il romanzo di narrativa contemporanea “La partita va giocata” ed. Scatole Parlanti.

Post in evidenza

Intervista a Maria Cristina Buoso, autrice di “Delitto al Condominio Magnolia – I casi del commissario capo Caterina Angeli” – Collana Città in Giallo.

«Alice, mi fai un cappuccino e… una fetta di crostata? Con cosa l’hai fatta oggi?»

«Farina di avena e ricotta con scaglie di cioccolato fondente. Te ne taglio una fetta?»

«Sì grazie… e abbonda»

Le vocazioni non conoscono ferie e non vanno in pensione. Quando si parla di professioni a forte impatto sociale – i sanitari o le Forze dell’Ordine, per citarne alcune – c’è un fondo di verità assoluta: non si smette di esserlo a comando e, forse, lo si resta per sempre. Siete d’accordo oppure no? Mentre ci riflettere – ed è una riflessione che merita, a mio avviso – vi presento un personaggio che di dubbi a riguardo non ne ha.

Lei è Caterina Angeli, commissario capo in pensione da qualche settimana ed è la protagonista di “Delitto al Condominio Magnolia” di Maria Cristina Buoso. Caterina e la sua attitudine a formulare ipotesi  – e ad ascoltare ciò che gli altri non dicono – sono piuttosto delineati lungo la narrazione: una chiara immagine di come la donna, di fatto, pur avendo raggiunto l’età anagrafica per il ritiro dal lavoro sia ancora molto attiva e, per come viene descritta, anche indispensabile alla soluzione di un caso che ha scosso il “Condominio Magnolia”. Claudia Trini, il commissario in carica, si fida di Caterina: l’autrice ha reso bene l’idea del sodalizio tra le due donne a base di polenta al brasato, caffè lungo, biglietti colorati e messaggi inviati dal cellulare e scambi di ipotesi da avvallare o eliminare dalle indagini. Sullo fondo la città di Padova e un bar-libreria dal sapore dolcissimo.

Non voglio svelarvi altro, preferisco passare la parola all’autrice che ha accettato il mio invito a partecipare alle boodinterviste.

VG: Buongiorno, Maria Cristina. Benvenuta.

MCB: Grazie, mi ha fatto piacere questo invito e mi è piaciuto come hai presentato la mia nuova protagonista. A proposito, ti informo che è in uscita la seconda avventura di Caterina e della sua amica Claudia: “Il mistero dei 6 tiramisù”. Siete curiosi???

VG: Inizio con una domanda un po’ bizzarra ma, secondo me, mai banale. Perché scrivi?

MCB: Perché mi piace raccontare storie sempre diverse anche se alcune hanno ormai gli stessi protagonisti, parlo dei thriller e dei gialli. Nella narrativa i protagonisti sono diversi e raccontano la realtà in cui vivono coinvolgendo i lettori nelle loro scelte. Nelle poesie a parlare sono emozioni e sentimenti, istantanee di quello che vedo, leggo, sento ecc… Scrivere è sempre una scommessa con me stessa; riuscirò a trasformare l’idea che ho avuto in una storia e soprattutto… piacerà ai lettori?

VG: Orario di massima ispirazione, o momento della giornata/settimana. Hai voglia di condividerlo con noi?

MCB:  Non ne ho uno.  Dipende da tanti fattori;  tempo, concentrazione e altro……  

VG: Che cos’è il progetto “Città in Giallo”? Perché hai deciso di parteciparvi?

MCB: Questa idea l’ha avuta l’anno scorso il mio editore, ha creato questa nuova collana sulla falsa riga dei gialli Mondadori, se ci fai caso la copertina richiama e omaggia quel tipo di libro, che molti di noi conoscono perché letti almeno una volta nella vita. Ogni autore doveva scegliere una città dove ambientare i propri libri e doveva creare dei personaggi nuovi e anche il luogo dove li avrebbe fatti muovere per la maggior parte del tempo.  Io volevo rimanere nel Veneto e avendo già ambientato i miei thriller a Treviso, ho pensato che Padova poteva essere adatta, per vari motivi, ai miei gialli. Così oltre a pensare ad un personaggio femminile al di fuori degli schemi, non credo ci siamo molti commissari capo donna in pensione nei gialli italiani, ho voluto creare un quartiere molto green, ecologico, animalista ecc…, come piace a me. E un’altra caratteristica dei miei gialli è che, quando posso, li uso per omaggiare i grandi del giallo classico. In questa prima avventura l’ho fatto con uno dei libri più famosi di A. Christie, mentre nel secondo libro da un racconto di S. Holmes.

VG: Nelle tue note ho letto che il commissario Capo Claudia Trini – il capo in carica – è un personaggio che si è autoimposto (citazione testuale). Curioso, questo fatto. Ci racconti come è accaduto?

MCB: Sì, a volte succede che i personaggi decidano per noi, è successo anche in Vernissage. In teoria doveva essere d’appoggio all’indagine di Caterina ma poi mi sono accorta che era bello questo confronto e complicità tra i due personaggi e l’ho lasciato crescere e …… non aggiungo altro.

VG: Come anticipato, in questa opera hai omaggiato Agatha Christie e il suo “Assassinio sull’Orient Express”. Chi sono i giallisti che hanno – anche marginalmente – influenzato la tua carriera di scrittrice e che ti hanno fatto amare il genere?

MCB: Domanda spinosa, non lo so. Da ragazzina leggevo i gialli dei ragazzi della Mondadori e poi sono passata a leggere i classici e altri libri un po’ per volta, amandoli tutti. Per cui, se mai ho avuto una influenza…. credo che tutti mi abbiano lasciato un segno che emerge a mia insaputa quando scrivo…

VG: Come ho scritto in premessa, sei riuscita a creare due personalità femminili legate tra loro, simili ma diverse: Claudia e Caterina. Riusciresti ad attribuire cinque aggettivi per ognuna, che rappresentino al meglio le loro personalità?

MCB: Sono personaggi nuovi e in crescita e per questo da scoprire nelle prossime avventure. Entrambe credono nell’amicizia e nel fare bene il proprio lavoro. Caterina è molto legata ai figli e non ha paura di prendere decisioni anche scomode, se necessarie. Claudia è molto legata alla divisa che indossa e non sopporta quando non riesce a chiudere un caso. Queste sono alcune cose che mi vengono in mente, ma le conoscerò anche io come voi nei gialli. Per questo non posso dirti 5 cose adesso che le riguarda, caso mai più avanti.

VG: C’è un luogo che ho amato, all’istante: il bar/pasticceria/libreria Neko: sapori e parole, dolcezze letterarie e gastronomiche… Un luogo davvero speciale! È frutto della tua fantasia oppure hai tratto ispirazione da un luogo reale? Anche in questo caso, hai creato due personaggi femminili legati tra loro. Possiamo dire che il tuo è un romanzo al femminile? Come un omaggio, uno scrigno che racchiude vissuto, esperienza e sentimenti.

MCB: Mi sono accorta, giuro non era voluto, che i miei gialli e thriller sono al femminile e onestamente mi fa piacere. Nella letteratura poliziesca personaggi femminili ce ne sono pochi perché questa letteratura è sempre stata raccontata al maschile per una serie di motivi; quanti investigatori privati, poliziotti, avvocati e altro ci sono? Idem per gli scrittori. Per fortuna, ultimamente ci sono molte donne che emergono in questa tipologia di libri e sono molto apprezzate dal pubblico così come le loro protagoniste. In merito al bar pasticceria libreria…eheheh… piace anche a me questo posto. Volevo creare un luogo particolare e ho mischiato un po’ di cose. Avevo letto tempo fa di questi bar Neko e mi erano subito piaciuti. Ma ho voluto ampliare l’idea aggiungendo altre cose che mi piacevano e, per mia fortuna, avevo due personaggi che si adattavano a questo. Così ho creato questo posto particolare perché mi piace la commistione tra cultura, lettura cibo, relax, animali e tanto altro… Se qualcuno volesse copiare l’idea di questo locale e della clinica veterinaria, io ne sarei veramente felice.

VG: Pur non svelando passaggi chiave del tuo romanzo, vorrei spendere qualche parola sul male oscuro e nascosto – uno dei più morbosi – che hai trattato. Il finale obbliga a riflessioni perché hai saputo portare all’attenzione del lettore il tema della giustizia in senso più ampio: anche chi è preposto a emettere sentenza resta pur sempre un uomo. Ci sarà un seguito di “Delitti al Condominio Magnolia” o Caterina e Claudia saranno impegnate in indagini di altra natura?

MCB: Non so se questa storia avrà un seguito un giorno. In merito al finale… credo che molti di noi davanti a una situazione del genere si troverebbero nella stessa difficoltà di Caterina, ma essendo in pensione, e dopo averci riflettuto per bene, ha deciso di…. mi fermo qui per non svelare nulla. Al momento Caterina si trova a dover svelare il mistero di chi rovina i tiramisù di Alice e ha vandalizzato l’ambulatorio veterinario di Andrea Stella. Una settimana piena di movimento e di sorprese, è un giallo “più leggero”

VG: Quali sono i tuoi nuovi progetti letterari?

MCB: Come ho anticipato prima, la seconda avventura di Caterina è ad un passo dalla pubblicazione. Sto lavorando al terzo caso di Ginevra Lorenzi dopo Vernissage e L’Incidente perl’anno prossimo e vi anticipo… che se il secondo libro è stato per voi una sorpresa il terzo……  lo sarà ancora di più, ma dovrete aspettare 2023 per sapere cosa succederà. Devo rivedere altri due libri di narrativa ma, con tanta carne al fuoco, non so quando saranno pronti. Il mio blog mi tiene molto occupata anche se mi sta’ dando molte soddisfazioni … ma non mi voglio sbrodolare addosso, passate e mi direte la vostra. Sto preparando la rubrica per Natale, diversa da quella dell’anno scorso (andata molto bene per fortuna) e se ci riesco invece di postare i miei racconti per Natale e la Befana, quest’anno vorrei fare una cosa diversa… ma devo avere il tempo per preparare il tutto… come vedete sono abbastanza impegnata e non vi dico altro. Ringrazio per l’intervista e aspetto di sapere cosa ne pensate dei miei libri.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Maria Cristina Buoso scrive le prime cose quando era giovanissima, inizia con fiabe e poesie crescendo amplia la sua scrittura con racconti brevi, copioni, romanzi, gialli, thriller e altro. La poesia “Aiutami” è stata inserita nell’Antologia Multimediale “Una poesia per Telethon”, a scopo benefico (2004). La poesia “Pace in Guerra” nel concorso indetto da A.L.I.A.S.  (Melbourne – Australia), ha ricevuto la Menzione D’Onore. La poesia “Bugie” (Stones of Angles) è stata inserita nel Vol. 6 – In Our Own Words: A Generation Defining Itself – Edited by Marlow Perse Weaver U.S.A. (2005). Ha vinto il terzo premio nel Concorso Letterario “Joutes Alpines” dell’Associantion Rencontres Italie Annecy (Francia) per la Sez. Prosa (Italia) con il racconto “Il vecchio album” (1997). Questi sono solo alcuni dei vari riconoscimenti che ha ricevuto nel passato. Recentemente le è stato conferito il Certificato di collaboratrice della China Writers Association e del Club dei Lettori della Cultura orientale e Letteratura cinese, tramite Fiori Picco, per il suo impegno nella divulgazione nel suo blog.

Pubblicazioni recenti :

Nel 2017 “Anime”.  Nel 2021 “Schegge di parole”,  “Vernissage”, “Delitto al condominio Magnolia”. Nel 2022 “L’Incidente”, “Il mistero dei sei tiramisù”. Alcune sue poesie sono state inserite in “DONNE D’AMORE: Antologia poetica al Femminile”.

I suoi contatti social sono:

https://mariacristinabuoso.blogspot.com/

https://www.instagram.com/mcbmipiacescrivere/

https://www.facebook.com/groups/366743647118908 –  Il Mio Salotto LetterArte…

Stesso nome “LetterArte” anche in Telegram e in Wavefull

Post in evidenza

“Carestia sentimentale – Lettere dal fronte” di Patrizia Dall’Argine, Scatole Parlanti.

Dice sempre, Ennio, il mio strizzacervelli – anche se è il cuore, più che altro, a essere ogni volta strizzato – che abbiamo tutti bisogno di dormire dentro a qualcuno.” Citazione tratta dal libro.

Ci sono parole  – sostantivi, verbi, aggettivi – che sanno provocare un’immediata reazione, nella comunicazione scritta o verbale. Sono termini che possono seguire la moda o l’attualità, altri che conducono vita privata e che potrei definire evergreen. Una di queste è: carestia. Wikipedia la definisce così: “fenomeno nel quale una larga percentuale della popolazione di una regione o di un paese è così denutrita, che morire di inedia, o altre malattie correlate, diviene sempre più comune”. Una parola che anticipa catastrofi, disperazione, fine. Pensate, cari lettori, all’abbinamento del significato di carestia nella sfera sentimentale. Non vi sarà difficile immaginare cosa ho provato, quando ho iniziato la lettura di “Carestia sentimentale – Lettere dal fronte” di Patrizia Dall’Argine, pubblicato da Scatole Parlanti. Sono sincera, ero pronta a sorbirmi cascate di lacrime chiuse in fazzolettini umidi e a tenermi un po’ addosso quel dolce e struggente senso di vuoto che le storie di solitudine lasciano.

A pagina 14 – ma già in precedenza le mie convinzioni avevano vacillato – ho letto: “I pesci in salamoia li ho apprezzati solo io. A Lela hanno fatto salire i fumi al cervello e a un certo punto ha detto: «Andiamo da un’altra parte, a mangiare qualcosa di serio, per cortesia» perché con lei si può scherzare su tutto, ma non sul cibo. Clara, a quel punto, ci ha condotto con destrezza tra le vie labirintiche di Gràcia.… Come sempre i nostri stili cozzano meravigliosamente, la mia borsa vintage da dieci euro e la sua Gucci da un po’ di più” e il mio approccio alla lettura è cambiato totalmente. Abbandonato il timore di precipitare in una voragine di piagnistei, mi sono goduta la scrittura di Patrizia Dell’Argine: sincera, diretta, viva, fresca, coinvolgente e ironica. L’autrice indaga la fame di sentimenti, e accompagna il lettore nel bisogno di amare e di essere amati. Lo chiama, il lettore, a gran voce. Gli chiede di restare, di accogliere le avventure amorose e quel brivido che ne segue. Un brivido che anticipa solitudine, dubbi, domande.

La trama racconta di Ester: una donna che ti conquista e non solo per quel suo modo di esprimere così bene l’universo femminile, quell’essere forte e fragile che ritorna spesso, nelle pagine. Ester vive le sue relazioni senza sconti: questo significa dover affrontare valanghe emotive e relative conseguenze come solo una guerriera sa fare. A sostenerla ci sono le amiche di sempre e sono quelle che non hanno bisogno di tante parole per capirsi: l’autrice sparge il senso più profondo dell’amicizia, del legame e della relazione tra persone. Buona parte della narrazione, infatti, tocca questo tema e ne emerge un quadro variegato e autentico nel quale si avverte forte il bisogno di appartenere a un gruppo e sentirsi parte di un insieme. Gli incontri culinari con le amiche e i menù che l’autrice ha scelto per la narrazione sono la conferma: Vermut e riflessioni sui rimpianti; biscotti al burro consolatori; cene di Natale per sfidare sé stesse e il proprio palato.

Tra tanta femminilità un personaggio degno di nota è senza dubbio Ennio, lo strizzacervelli: un uomo, una guida, un sostegno, un esempio di saggezza e fermezza ma anche – e soprattutto – di umanità ed empatia. Una ulteriore nota di merito va ai dialoghi tra Ester ed Ennio, durante le sedute: piacevoli, leggeri e profondi, caldi e confortevoli. L’autrice, in questi passaggi, elargisce speranza, possibilità, rimedi e un insegnamento che vale la pena tenere a mente: dai fallimenti si impara e si rinasce.

La struttura della narrazione, come avrete capito, è simile a un diario, intervallato dalla forma epistolare che aggiunge una nota originale e intima all’intera opera.

Consiglio di lettura. Leggete “Carestia sentimentale – Lettere dal fronte” in quei momenti – tutti al femminile- di carenza e incertezza; quando siete in cerca di una risposta; quando i rimpianti superano i sorrisi e quando la carestia sentimentale ha bisogno di essere vissuta (e capita).

Si ringrazia Valentina Petrucci dell’ufficio stampa per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Patrizia Dall’Argine è nata in provincia di Parma. Copywriter e creativa, lavora in campo audiovisivo. Dopo aver suonato nel gruppo indie Pecksniff, ha realizzato il suo album da solista Non piango per le cipolle (Storie di abbandono in cucina). In seguito si è dedicata al teatro, fondando La Compagnia del Radicchio. Viaggiatrice solitaria da quindici anni, racconta con passione le sue avventure e disavventure nel blog “Ad esempio partire”.

Post in evidenza

“Laghi e delitti 2” AA.VV. – Fratelli Frilli Editori. Racconti finalisti del Concorso letterario Ceresio in Giallo 2021-2022.

Forse la verità dipende da una passeggiata intorno al lago”, Wallace Stevens.

Il paesaggio lacustre è molto caro alla letteratura: lo specchio d’acqua che s’increspa lievemente quando il vento lo bacia, il cielo che si stringe tra le cime delle montagne e quella dolce, irresistibile, malinconia che si sprigiona nell’aria sono elementi che fanno da sfondo perfetto, da benzina per l’ispirazione dell’artista.

L’area lacustre, inoltre, presenta un’ulteriore particolarità che mi piace sempre ricordare: quando la superficie lo permette, i comuni che si estendono sulle rive si guardano, si osservano, si sentono. Le luci della sera, la musica in estate, le imbarcazioni che attraversano il lago: tutto è insieme, come un quadro, come una fotografia nella quale gli elementi occupano ognuno il proprio posto, indispensabili e perfettamente armonici tra loro.

Un paese che rappresenta bene quest’immagine è, certamente, Porto Ceresio. Siamo in provincia di Varese, il comune è adagiato all’interno di insenature e golfi, e l’aria che si respira è quella di una fine e di un principio: “Porto”, infatti, è l’ultimo paese italiano prima della Svizzera, o il primo, a seconda del punto di vista. Un paese che potremmo definire strategico, la cui vita ruota attorno al confine, al lago, alla vista incantevole e alla sua forza culturale. Una forza che ha creato e voluto un premio letterario che, oggi, vanta un successo internazionale. Il premio è il Ceresio in Giallo.

L’edizione del Ceresio in Giallo 21-22 si è conclusa in primavera, e la giuria ha valutato circa quattrocento opere, tra inediti ed editi.

Una varietà di autori per un unico genere letterario, come si evince dal titolo: il genere giallo. Giallo che, tuttavia, annovera una serie di sottogeneri che gli autori hanno presentato: noir, thriller, storico, poliziesco, informatico… giusto per citarne alcuni.

Non è tutto.

La sezione racconti del premio – altrettanto ricca e variegata di firme –   ha prodotto un volume pubblicato da Fratelli Frilli Editore dal titolo “Laghi e delitti, volume 2”. Questa raccolta presenta un denominatore comune: il lago non è solo un paesaggio interessante ma è un vero protagonista, è un luogo di svolta, centrale, indispensabile alla narrazione. L’Italia lacustre è stata dunque trascritta con abilità e precisione: Bolsena, Garda, Lavarone, Orta, Lecco, Nero, Laceno, Maggiore, Como, Calamone, Ceresio, Inferno, Iseo, Cavazzo. Anche la Svizzera è entrata in gioco con il lago Blausee – celebre meta turistica tra le Alpi Bernesi.

Lo scenario generale è lo stesso – questa la regola da rispettare – eppure la fantasia degli autori non è stata vittima di una costrizione, anzi… La varietà di stili narrativi, di voci, di aguzzini e vittime, di scenari culinari e di contesti storici ha creato un melting pot gradevole, dinamico, ad alta tensione. Non mancano riferimenti a contesti sociali disagiati, finali mozzafiato, commissari e agenti dediti alla loro mansione e donne che devono affrontare i loro destini con coraggio e determinazione.

Infine, una ulteriore segnalazione è d’obbligo: gli organizzatori e gli autori hanno deciso di devolvere i diritti d’autore ricavati dalla vendita del libro all’associazione benefica “L’arcobaleno di Nichi”. L’associazione, che fa parte della Giacomo Ascoli Onlus, sta lavorando a un progetto ambizioso: costruire una casa per i familiari dei piccoli pazienti che sono in cura presso l’ospedale pediatrico Filippo del Ponte di Varese.

Si ringrazia il Comitato Organizzatore e la Pro Loco di Porto Ceresio, nella persona di Serena Cortese, per la copia in omaggio.

Gli autori dell’opera sono:

Enrica Aragona, R. Bianucci Bandini, Cristina Biolcati, Federico Bonati, Mauro Bortoli, Eva Convertino, Anna De Rosa, Gianluca Di Matola, Graziella Dotta, Pietro Furlotti, Barbara Ghedini, Stefano Grindatto, Valentina Grossi, Luigi Guicciardi, A. G. Ion Scotta, Alessandro Mella, Vittorio Morisco, Alessandro Parolini, Mauro Poma, Clara Scarsi, Gioia Senesi, Mauro Tonino.

Il sito internet dell’editore è: http://www.shop.frillieditori.com

Sui social, trovate il “Premio” qui: Facebook  e Instagram: #ceresioingiallo @ceresioingiallo.

L’Arcobaleno di Nichi” è presente su Facebook e Instagram: @larcobalenodinichi: Il progetto citato si chiama “Il Faro” (tutte le info utili sul sito di Fondazione Giacomo Ascoli Onlus).

Post in evidenza

Intervista a Chiara Maggi, autrice de “La ragazza dei fiori”, CTL Editore.

“Le persone fanno cose strane, amano, dimenticano, se ne vanno, ritornano, non fanno mai capire perché lo fanno, perché cercano di ribaltare il proprio destino”. Citazione tratta dal libro.

Siamo strani, a volte: complichiamo le questioni semplici e ci riempiamo di domande che serviranno solo a scoraggiarci e a farci perdere, di nuovo; mettiamo distanze, le allunghiamo e le restringiamo e ci facciamo male, combattendo contro il destino che ognuno ha e, talvolta, ci sforziamo di dimenticare, invano.

Ha ragione Chiara Ferrari, la protagonista de “La ragazza dei fiori”, l’opera di esordio di Chiara Maggi, edita da CTL Editore , quando afferma che ci roviniamo per paura di accettare il nostro destino. Sarebbe tutto molto più semplice, se fossimo capaci di accettare ciò che non possiamo cambiare.

La ragazza dei fiori” narra la storia di Chiara, appunto. Una giovane donna con un passato doloroso sulle spalle, e quella solitudine tipica di chi ha ricevuto poco amore. Chiara, per caso o per via del destino di cui si parlava poc’anzi, conosce Silvano, un fioraio, che le insegna il mestiere e che l’accoglie come un padre. La trama si intensifica, si riempie di personaggi, e il lettore scopre la protagonista attraverso le sue stesse parole: il suo dolore ma anche la sua forza, l’amore che le fa paura ma che la conquista, le amicizie ma anche la sua estrema solitudine e quel tormento che Chiara ha dentro sé e che ritrova in un altro personaggio, Domenico.

Leggere “La ragazza dei fiori” non è stato semplice. L’autrice ha descritto il male di vivere, la violenza, i soprusi, la paura, la solitudine e lo ha fatto con dettagliata semplicità. Durante la lettura emergono sentimenti forti, e ci sono passaggi altrettanto forti, che non ti lasciano indifferente. Ma, per fortuna c’è il potere della letteratura, delle parole, della speranza che subentra e che, come il vento, spazza via le nuvole per lasciare spazio al sole.

Ora vi presento lei, l’autrice, che ha accettato l’invito a rispondere a qualche domanda.

VG: Buongiorno, Chiara. Benvenuta.

CM: Buongiorno a te, sono felice di fare questa intervista.

VG: Chi è Chiara Maggi?

CM: Chiara è una persona semplice, ama la natura, vive in un paese dell’entroterra ligure, fa la fioraia e da sempre scrive, sì, scrivere fa parte del mio DNA, una cosa che mi sono trovata dentro.

VG: C’è un autore che in qualche modo ha ispirato la nascita della tua opera?

CM: Ho sempre letto tanto, ci sono diversi autori che amo tra cui Elena Ferrante, Eshkol Nevo, Lorenzo Marone e la grandissima Elsa Morante, ma nessuno di loro mi ha ispirata, tutto è venuto fuori da me come un vulcano quando erutta.

VG: La natura è lo sfondo del tuo libro. Ci sono fiori, boschi, profumi… C’è un luogo naturale che ti ha ispirato e che ti fa sentire a casa?

CM: La serra dove lavoro, i boschi dove mia nonna andava a fare legna e io la seguivo agile come uno scoiattolo, i campi pieni di girasoli della Toscana, tutto ciò che è verde è casa.

VG: Ho incontrato vari “alimenti narrativi”: molti sono i sapori di casa e delle ricorrenze. Se dovessi scegliere un piatto, quale rappresenterebbe al meglio la personalità di Chiara?

CM: Una pasta al pomodoro con aggiunta di olive e peperoncino. Questo sicuramente è il piatto che più le somiglia, fresco e un po’ dolciastro, ma con un tocco piccante. Un sapore che resta a lungo in bocca e che hai sempre voglia di ritrovare.

VG: Hai usato la narrazione in prima persona, affidando alla tua protagonista il racconto. Sei un’autrice che organizza il suo lavoro o lascia che sia l’ispirazione a guidare la tua scrittura?

CM: Mi lascio sempre guidare dall’ispirazione, non organizzo mai niente, vivo di attimi, per me scrivere è buttare fuori un oceano di  sentimenti e emozioni, niente di pensato prima.

VG: Chiara è una donna che vive molti conflitti. Una vita che le ha tolto tutto, e quella solitudine che non le lascia tregua sono due elementi che hai usato spesso, durante la narrazione. Apparentemente è una donna semplice, fragile, ma secondo me è tenace e forte, determinata e coraggiosa. Sbaglio?

CM: Chiara è una roccia, solo che non lo sa e questo le crea non pochi problemi, però man mano che cresce capisce che non è lei ad avere bisogno di aiuto, ma gli altri, e così si presta, adopera la sua sensibilità per fare del bene. La vera forza di Chiara è il cuore.

VG: Il perdono è un tema che torna spesso, nell’opera. Qual è, secondo te, il segreto per riuscirci? E, siamo davvero capaci di perdonare per sempre?

CM: Credo che il perdono sia necessario. È come quando facciamo un bel respiro profondo dopo aver trattenuto l’aria. Ci libera. Ci fa sentire leggeri. Certamente non è facile, ci sono ferite profonde e dolorose, ma il perdono può essere una medicina. Non fa guarire, ma sicuramente fa stare meglio. Chiara lo capisce alla fine, capisce che senza perdono non potrà mai essere veramente libera.

VG: Il tema della violenza (nei confronti delle persone e degli animali) emerge con coraggio, in molti passaggi. Se fossimo capaci di sentire le nostre emozioni e se fossimo capaci di accettarle – forse – potremmo ambire a una società più serena e più giusta?

CM: Ci vorrebbe più rispetto per tutto e tutti e soprattutto coraggio. Chiara nel libro parla spesso del coraggio…lo invoca, sa che ne ha bisogno se vuole cambiare vita e aiutare gli altri tra cui la piccola Mirella.

VG: Hai ambientato il tuo libro in Liguria, negli anni ‘80/90, un periodo storico che potremmo definire diverso, rispetto al nostro presente. Mi ha stupito, la scelta dell’arco temporale. Questo è un periodo al quale sei particolarmente legata oppure è frutto di una scelta stilistica?

CM: Mi sono venuti in mente quegli anni, anni molto diversi e per un certo verso più spensierati, senza tutta questa tecnologia che ci ha portato a soffocare le emozioni. Chiara e i suoi fiori stavano bene negli anni 80\90, quando ancora ci si guardava negli occhi.

VG: Hai esplorato a lungo anche il ruolo della famiglia, in questo tuo romanzo. Famiglia è il luogo in cui nasciamo o sono le persone che ci amano incondizionatamente? Perché, purtroppo e come hai descritto tu, non sempre le due cose coincidono…

CM: Famiglia è chi allarga le braccia per abbracciarti, chi ti asciuga una lacrima, chi capisce il tuo stato d’animo.  Non sono per forza i consanguinei, ma chi in quel momento apre il suo cuore al tuo.

VG: Hai uno spazio a disposizione per invitare i lettori a leggere la tua opera. Cosa diresti?

CM: Leggete “La ragazza dei fiori”  perché è una storia che lascia qualcosa di buono, scritta con sentimenti profondi, veri…Chiara assomiglia a tante donne, tante donne si riconoscono in lei. E poi perché c’è Pepe il mio bassotto, impossibile non innamorarsi di lui e di Tigro e della dolce Luna.

Buona vita, Chiara, e tienici aggiornati circa i tuoi prossimi progetti.

Si ringrazia l’autrice per aver partecipato e, inoltre, un ringraziamento particolare va a Helena Molinari per la segnalazione dell’opera.

Nota biografica dell’autrice:

Chiara Maggi nasce a Lavagna, una cittadina in provincia di Genova. Fin da bambina sente il bisogno di scrivere: scrivere era un’urgenza. Dopo aver interrotto gli studi, si è appassionata sempre di più alla letteratura. Ha letto tantissimi libri. Nella vita ha fatto vari lavori, per poi approdare in un vivaio di floricoltura. Il contatto con la natura l’ha resa ancora più sensibile, e l’ha spinta ad abbandonare le antiche paure, la sua insicurezza, ed è nato il desiderio di scrivere. “ La ragazza dei fiori” è stato pubblicato con una casa editrice di Livorno, CTL editore, il dieci di aprile 2022. Attualmente vive in un paesino dell’entroterra ligure col figlio Francesco e due cani. Si occupa sempre di fiori e nel tempo libero continua a scrivere, imprime sulla carta le sue emozioni.

Il sito internet della casa editrice è : www.ctleditorelivorno.it

Post in evidenza

“Mari Ermi” di Arianna Desogus, Edizioni Convalle.

Prefazione di Maria Rita Sanna.

“E all’improvviso, per qualche strano prodigio, i suoni della campagna lì attorno sembravano amplificarsi. Il ruscello, la brezza, il fruscio tra gli alberi, i rumori tra le canne. Tutto. Ed era vero, quello che diceva Ambra: faceva girare la testa.” citazione tratta dal libro.

Ci sono storie che profumano di buono, di casa, di pace (anche se qualche tempesta accade, come è normale che sia). Ci sono libri che sanno raccontare valori attraverso le gesta dei protagonisti: anime che vanno, che tornano, che si cercano, che si allontanano per paura di viversi. E poi ci sono gli scenari che la penna di un autore è capace di creare: ambienti che sono dei protagonisti indispensabili, irrinunciabili.

“Mari Ermi” di Arianna Desogus, pubblicato da Edizioni Convalle, rispecchia tutte queste caratteristiche.

L’opera è ambientata in una terra che non ha bisogno di presentazioni né di lusinghe – la Sardegna – e lo scenario che accoglie il lettore è il frutteto di proprietà della famiglia di Antonio, un giovane studente della facoltà di giurisprudenza. Ed è proprio grazie ad Antonio, e alla sua cesta colma di arance profumate e a un mandarino rubato, che il lettore scopre Ambra, una giovane isolana che ha vissuto nel continente e che, per ragioni che si scopriranno durante la lettura, è tornata a casa.

“Lui si sentiva in imbarazzo a starsene lì in silenzio mentre una sconosciuta mangiava in silenzio e senza il minimo imbarazzo una delle sue arance, ma lei non sembrava rendersene conto – o non gliene importava – perché si decise a parlare solo dopo l’ultimo spicchio.”

Arianna Desogus inizia la sua narrazione dopo questo incontro: un incontro casuale ma decisivo, per lo sviluppo della trama. Non ci sono solo Antonio e Ambra, ovviamente, perché loro due sono solo il principio, come detto: subentrano i genitori di Antonio che devono prendere una decisione importante, quelli di Ambra che vanno scoperti pagina per pagina, i nonni di Antonio che riempiono le pagine di saggezza e, infine, gli amici – il gruppo – che in questo romanzo sono rappresentati da ragazzi vivaci, diretti verso il loro futuro.

Se dovessi segnalare una delle particolarità che più mi hanno colpito di quest’opera, mi soffermerei sulla capacità dell’autrice di usare le descrizioni. Sono dolci, poetiche, realistiche, soggettive e, proprio per questo, riescono a raccontare la personalità del personaggio, oltre che a disegnare l’ambiente narrativo.  Ho estratto un esempio, ma credetemi, “Mari Ermi” ne è colmo.

…“Era bello, quell’ordine un po’ distratto. A lui non piacevano le stanze ordinate alla perfezione, con puntiglio ostinato e maniacale. Gli facevano sembrare l’ambiente innaturale, asettico. Invece, l’ordine tratteggiato in quella stanza era intervallato da schizzi di colore gettati qua e là: due pile di panni da piegare sul tavolo rotondo, una borsetta beige su una sedia, un cappotto blu sulla spalliera del divano….”

Infine, l’autrice usa profumi e sapori con una sicurezza ammirevole. Quando i personaggi sono nel frutteto ti sembra di sentire l’aroma acidulo degli agrumi; ci sono le chicchere di caffè che tintinnano durante le conversazioni, quelle che aprono scenari nuovi; l’odore del mirto che ricorda la forza e la protezione; e poi gli yogurt freschi e i panini che accompagnano le merende al frutteto e quegli attimi vissuti tra cielo e terra.

Non vi svelerò altro. Il resto lo scoprirete attraverso le risposte dell’autrice che ha accettato il mio invito a raccontarci qualcosa di lei e del suo romanzo.

VG: Benvenuta, Arianna. Grazie per aver accettato il mio invito.

AD: Ciao, Valeria! È un piacere fare la tua conoscenza e chiacchierare con te del mio romanzo. Sono molto felice che tu lo abbia letto e apprezzato!

VG: Chi è Arianna Desogus?

AD: Una ragazza solare cresciuta tra libri, mare e campagna. Una sognatrice perenne che pensa di continuo a come realizzare i propri sogni. Una tipa determinata, a cui piace agire, e al tempo stesso riflessiva all’inverosimile. Una socievole ed estroversa che però ama moltissimo stare da sola. Che altro dirti? Amo le cose semplici e sono felice per un nonnulla, ma, di contro, sono molto esigente e severa con me stessa e, di conseguenza, anche con gli altri. Sono sempre stata un po’ imbranata, spesso fuori posto, estremamente sensibile. Una persona spontanea, mi dicono in molti. Allegra e vivace, malinconica e romantica, amo il mare, i tramonti e la pioggia. E la scrittura, da sempre.

VG: Hai scelto il titolo “Mari Ermi”. Che cos’è per te?

AD: Intanto chiarisco che Mari Ermi è una spiaggia di quarzo situata nella costa occidentale sarda. Cos’è per me… Anzitutto, è un luogo che per tanto tempo non ho frequentato e che a un certo punto, nell’estate del 2015, ho riscoperto per caso. Questo mio incontro con Mari Ermi ha avuto un impatto molto forte su di me; mi ha toccato l’anima. E quando un luogo ti tocca così, è naturale che entri in qualche modo nella tua arte, che della tua anima è la forma di espressione più assoluta. Nel mio caso, la spiaggia di Mari Ermi non solo è entrata nel romanzo, ma ha avuto un ruolo fondamentale anche nella sua genesi. Prima di tutto perché, nel momento in cui ho riscoperto questo luogo, la trama del libro era solo un insieme di idee, suggestioni e riflessioni: l’impatto di questa spiaggia è stato talmente potente che, nei giorni a venire, mi è sembrato che attorno alla sua immagine si concentrassero tutte le idee che avevo in quel momento. È come se lei fosse diventata il nucleo della mia storia, il fulcro attorno al quale ha cominciato a ruotare tutto il resto. E così è stato naturale per me collocare a Mari Ermi una delle scene più importanti del percorso di crescita dei miei protagonisti e, per tutti questi motivi, intitolare il romanzo con il nome di questa spiaggia. Un titolo anche poetico ed evocativo, come questo luogo straordinario nel quale torno ogni volta che posso, specie al tramonto.

VG: Jung disse: “L’incontro tra due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche; se c’è una qualche reazione, entrambi ne vengono trasformati.” Ho pensato molto a questa citazione, durante la lettura del tuo romanzo. I tuoi personaggi cambiano, durante la narrazione. Chi è, secondo te, il personaggio che deve affrontare il cambiamento più significativo?

AD: Molto vera questa citazione, e molto adatta ai miei protagonisti. È giustissimo, Ambra e Antonio cambiano molto dall’inizio alla fine del romanzo. È stata in parte una scelta consapevole, derivata dai miei studi di scrittura creativa – una buona storia è quella in cui i personaggi si evolvono, nel bene e nel male – e in parte un fatto spontaneo, nel senso che scrivendo mi sono lasciata guidare da loro, dai personaggi, seguendoli nei loro moti d’animo e nel loro percorso di crescita. La tua è una domanda molto complessa: Ambra e Antonio, infatti, cambiano moltissimo e in un certo senso, oltretutto, affrontano un cambiamento simile, perché entrambi riscoprono qualcosa di sé che avevano perduto. Forse, tutto sommato, è Ambra ad affrontare il cambiamento più significativo, perché il suo percorso di crescita implica una riflessione su molti anni della sua vita e, per giunta, sulla storia del suo rapporto con la madre.  

VG: Hai inserito molti riferimenti storici che si legano alla trama (che è, però, ambientata in epoca attuale). Chi è il personaggio storico che più ti rappresenta?

AD: Ah, Valeria, io amo moltissimo la storia! In particolare la storia antica, che mi consente di esplorare le nostre origini, e la storia del Novecento, che rende più consapevole il mio sguardo sul presente. Ti sarai accorta che questi due livelli sono entrambi presenti nel romanzo, anche se in modo diverso. La storia romana, disciplina in cui mi sono laureata, è integrata nella trama con una similitudine tra le vicende di Marco Antonio e Cleopatra e quelle dei miei personaggi; la storia contemporanea invece si inserisce con i racconti di nonna Antonica risalenti all’epoca della Seconda guerra mondiale. Nonostante io ami la storia, comunque, non ho mai trovato un personaggio che mi rappresentasse a pieno; posso dirti però che mi affascinano tantissimo quelle donne particolarmente intraprendenti che riuscirono a distinguersi per la loro grande personalità, e spesso a cambiare il corso degli eventi (e ancor più mi attraggono, poi, se sono personaggi un po’ ambigui): Giovanna d’Arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Margaret Thatcher, parlando di contemporanei Angela Merkel… Ma su tutte, come avrai capito leggendo il romanzo, mi affascina Cleopatra: il genio politico, l’intraprendenza e l’eccezionale cultura unite in una sola figura, per me straordinaria, nel bene e nel male.

VG: Cosa pensi delle seconde occasioni, quelle che spesso ci fanno vivere le nostre seconde vite?

AD: Penso che bisogna crederci, saperle cogliere. E non solo le seconde, anche le terze, le quarte… È una delle cose di cui sono più convinta in assoluto.

VG: Un altro tema che hai scelto, per la tua narrazione, è l’arte – la cultura, in senso più ampio. Parlando di ispirazione, conta più il passato o la visione del futuro, secondo te?

AD: Il passato, senza dubbio. Almeno per me. Tutto quello che scrivo è condizionato da suggestioni e riflessioni che il mio vissuto (o il vissuto di persone attorno a me) mi ha dato. Il passato, più che altro, fornisce materiale reale su cui lavorare. Il futuro fornisce sogni e progetti, certo, ma è sul passato che si costruiscono le nostre conoscenze, e sono le nostre conoscenze ciò che siamo maggiormente in grado di scrivere, di raccontare, sia a livello di suggestioni e riflessioni, sia a livello di luoghi che abbiamo visto, cose che abbiamo fatto, esperienze vissute da noi o da altri (perché queste ultime passano comunque attraverso di noi, attraverso il nostro sguardo). Sono fermamente convinta che in ogni scritto c’è sempre, in qualche modo, il vissuto del suo autore.

VG: Antonio ricorda spesso la fatica e il sudore che il lavoro nel frutteto gli ha procurato e, come una conseguenza logica, esprime anche la soddisfazione che quello stesso sforzo gli ha regalato. Un tema ampio, che tu hai saputo raccontare con passione e precisione, condito anche da un sano attaccamento alla propria terra d’origine. Che tipo di rapporto hai con la tua terra?

AD: Ti ringrazio per queste tue considerazioni; mi fa molto piacere sapere che tu abbia apprezzato parti del romanzo a cui tengo tantissimo! La mia terra per me è il luogo delle radici e dell’identità, ed è l’unico rifugio sempre sicuro, l’unico posto in cui mi sento in pace con me stessa e con il mondo. Il territorio in cui sono nata e cresciuta, la mia campagna e il mio mare, sono anche i luoghi in cui tornerei sempre nei momenti in cui ho bisogno di ritrovare me stessa. Dal legame con la mia Sardegna, poi, deriva anche un legame con la terra e la natura in senso lato. La bellezza e la calma della natura ci consentono di distaccarci da situazioni di stress e rappresentano la pace che si oppone ai ritmi intensi che ci troviamo a sostenere sempre più spesso. Ma non solo: con la sua bellezza, la natura ci fa riscoprire la nostra predisposizione a meravigliarci e ci ricorda quanto sia bello amare le piccole cose.

VG: Un ulteriore tema che hai affrontato è la scelta del proprio mestiere. Ti chiedo, allora, secondo te il lavoro è passione o dovere? E, ancora, lavoriamo accettando le incertezze o per costruire certezze?

AD: Sono una che crede molto nelle cose che fa, dunque ti rispondo così: il lavoro deve essere prima di tutto passione, e deve servire per costruire certezze. Non tutti hanno la fortuna di avere un lavoro che rispetti questo assunto, e sono convinta che si dovrebbe fare di tutto perché ciò diventi realtà. In ogni caso, il lavoro di fatto non è mai solo passione, perché, è inutile negarlo, l’idea stessa del lavoro implica l’idea del dovere; e, allo stesso modo, purtroppo spesso occorre accettare incertezze per poter costruire certezze.

VG: Hai dedicato le pagine finali dell’opera a un resoconto nel quale racconti le fasi principali della stesura del romanzo. Pagine interessanti, che mi hanno incuriosita. Ci puoi raccontare il motivo che ti ha spinto a questa decisione?

AD: Che bella questa domanda! Sai che sto ricevendo moltissimi riscontri positivi sulle mie “note dell’autrice”? Ho notato che in effetti incuriosiscono molto i miei lettori, che apprezzano di poter comprendere alcuni retroscena importanti nella stesura del romanzo. Cosa mi ha spinto a inserire queste note? Beh, senza dubbio la necessità di lasciare nel romanzo stesso una traccia del modo in cui ho lavorato. A linee generali ho sempre avuto l’impressione che raccontare alcuni aspetti del percorso possa conferire a un’opera una particolare integrità, e questo è verissimo nel caso di Mari Ermi. Mi riferisco, ad esempio, alle informazioni che fornisco sulle storie che racconta nonna Antonica, o alla traccia che lascio del lavoro sulla parte meteorologica o della mia spedizione la notte del 22 agosto 2016 per poter scrivere il cap. 26. Sono aspetti, tra l’altro, che affascinano molto i miei lettori – sapere che le storie di nonna Antonica sono storie vere, sapere che il meteo in tutto il romanzo è realistico, sapere che nel cap. 26 io racconto esattamente le emozioni che trasmetteva il cielo di quella spiaggia in quella serata… Credo che in nessun luogo come in queste pagine sia chiaro il valore che attribuisco alla scrittura, alla quale consegno tutto ciò che non voglio dimenticare e che credo non debba essere dimenticato. Colgo l’occasione per ringraziare la mia editrice, Stefania Convalle, che ha compreso l’importanza di questa sezione, per me e per il romanzo.

VG: Raccontaci, se puoi, i progetti in corso e quelli che stanno per nascere.

AD: Al momento mi sto concentrando sulla promozione di Mari Ermi: sto lavorando soprattutto sul territorio (il libro attualmente è in vendita anche in alcuni punti sulle spiagge!) e ho in programma diversi firmacopie a settembre, sia in Sardegna sia a Roma, dove abito la maggior parte dell’anno. A livello di scrittura, invece, in questo periodo mi sto dedicando alla poesia e alla prosa breve, lavorando su spunti che traggo dalla vita quotidiana e dal mondo della natura: ho diversi progetti che bollono in pentola, e non vedo l’ora di condividerli con il mondo!  

VG: E noi non vediamo l’ora di conoscerli!

Si ringrazia l’editore per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Arianna Desogus nasce e cresce in Sardegna tra libri, mare e campagna. Compie studi classici e da subito si dedica all’insegnamento, passione che nel 2018 porta con sé anche a San Francisco, dove lavora in una prestigiosa scuola internazionale bilingue. Attualmente abita e lavora a Roma. Coltiva il suo amore per la lettura e la scrittura fin da bambina. A tredici anni scrive un romanzo fantasy e in seguito partecipa a importanti concorsi letterari, come il Giuseppe Gioachino Belli, con racconti e poesie, classificandosi sempre tra i finalisti e vincendo più volte menzioni d’onore. Parla di libri e letteratura sul suo blog http://www.lasardascrittrice.com e su Instagram (@la_sarda_scrittrice). Nel maggio 2022 esce il suo romanzo di formazione “Mari Ermi”, edito Edizioni Convalle.

Il sito dell’editore è : http://www.edizioniconvalle.com

Post in evidenza

“Focacce magiche e dove trovarle” di Anna Abate.

La vita a volte è crudele. O forse ha molto senso dell’umorismo. Vai a sapere.” Citazione tratta dal libro.

Il dubbio è lecito, quasi fisiologico. Gli eventi che accadono, nel bel mezzo della vita, sembrano tratti da un copione. Ci sforziamo di capire, lasciamo fuggire i dubbi, intrappoliamo le ansie, ci scusiamo con noi stessi, ma la domanda pende sempre, come una spada sulla testa. Sì, quella domanda… Perché è successo a noi?

Anna Abate – nella sua raccolta di racconti dal titolo “Focacce magiche e dove trovarle” – ci presenta un gruppo di personaggi in cerca di risposta: ognuno col proprio credo, il proprio vissuto e la propria aspirazione.

Federica è convinta di trovare un oggetto che le appartiene ne trova, invece, un altro e da quel momento inizia un’avventura che coinvolge i suoi nonni; Giulia e Pino raccontano la loro peripezia amorosa a suon di certezze e pesto senza aglio; Marietto ha il suo bel da fare alla panetteria, con i clienti e, soprattutto, coi turisti sempre più affascinati dalle sue magie culinarie; Martino perde i vestiti, in spiaggia, di sera, durante un bagno settembrino e, infine, Marco alle prese con un “esperimento” furbo.

L’autrice ha scelto di ambientare le vicende in Liguria e ogni particolare di questa terra allungata tra il mare e le montagne è rilevante: le espressioni dialettali tipiche, le caratteristiche degli abitanti – delineate con sapienza – , il profumo di salsedine, le vie strette, il vento che si distende e l’arte culinaria della regione. Non fatevi ingannare dal titolo, sarebbe riduttivo. I profumi e i sapori ci sono tutti: il basilico, grissini artigianali, seppie con piselli, pere mature, oltre che, ovviamente, la focaccia in tutte le sue versioni.

Anna Abate scrive in terza persona fino all’ultimo capitolo quando il protagonista entra in scena e si racconta al lettore. Il cambio di stile si sente, anche se, per tutta la durata della lettura, è come se il narratore dialogasse direttamente con il lettore, cerando coinvolgimento e benessere. L’ironia è ovunque, in quest’opera. L’autrice ha saputo strapparmi più che un sorriso, quando mi sono imbattuta nella descrizione del milanese in vacanza e anche il fruttivendolo Pino ha fatto la sua parte. Un’ironia calda, calma, autentica, piacevole, che non nasconde i messaggi più importante ma che, al contrario, diventa mezzo per affrontare qualche riflessione: il rapporto tra nipoti e nonni, la fragilità di questi ultimi, il lavoro artigianale e le sue sfaccettature, le emozioni che un nuovo amore concede. E, come si diceva in principio, la Vita in ogni sua forma.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Anna Abate: genovese di nascita e di indole, lavora da 15 anni come traduttrice. “Focacce magiche e dove trovarle” è il suo primo libro: dopo aver riportato in italiano milioni di parole pensate da altri, ha voluto provare a scrivere le sue, sperando di strappare a qualcuno una risata. I suoi profili Facebook e Instagram sono: vitadaligure.

Post in evidenza

“Quel che la marea nasconde – Un’indagine di Valentina Redondo” di María Oruña, Ponte alle Grazie, traduzione di Elisa Leandri, Tiziana Masoch, Monica Magrin Prino, Ersilia Serri.

Per chi si è perduto c’è ancora speranza. Citazione tratta dal libro.

Sapere che qualcuno ci crede, ancora e nonostante tutto, è confortante. Imbattersi in una frase come questa, ad alto contenuto positivo, crea una piacevole onda che ti culla, anche se solo per qualche secondo. Perché, diciamolo, abbiamo un bisogno estremo di fiducia e speranza, soprattutto quando le ombre sono fitte fitte. Pensate, poi, cari lettori, all’impatto che ha, un concetto simile, nel bel mezzo della lettura di un giallo classico. Bel contrasto, vero?

Quel che la marea nasconde – Un’indagine di Valentina Redondo” di María Oruña, edito da Ponte alle Grazie, è un romanzo ambientato a Santander, nell’affascinante regione cantabrica, che si sviluppa attorno alla morte misteriosa di Judith Pombo. La donna è nota per i suoi successi imprenditoriali, per essere a capo di un facoltoso tennis club e per il suo carattere piuttosto acido. Judith viene rinvenuta cadavere all’interno di una stanza chiusa, durante un party esclusivo, a bordo di una goletta. Sì, una stanza chiusa, avete letto bene. Valentina Redondo e la sua squadra hanno il dovere di indagare e di far luce su un caso che ha dell’impossibile. Questo accadimento dà il via a una serie di eventi, incontri, scontri, intrecci, ipotesi, sfide, altri decessi che confondono e che devono essere analizzati con metodo. La sfera emotiva dei personaggi cresce insieme alla trama e all’ambientazione (il tennis club, il mare, le ville). Valentina, donna dagli occhi di colore diverso, è la protagonista: vive un conflitto interiore che si avverte con chiarezza e che coinvolge il lettore tanto quanto la vicenda del delitto. Valentina si scopre con difficoltà: la conosciamo attraverso la voce velata del narratore e quella degli altri personaggi (una scelta stilistica che ho apprezzato); si lascia attraversare da un dolore vasto; sorride raramente; non chiede aiuto; impartisce ordini. In fondo, Valentina e Judith sono simili, sotto alcuni aspetti: entrambe donne indipendenti che sanno come farsi rispettare ma anche sole, per scelta o destino, come spesso accade alle donne che si mostrano forti e determinate.

L’autrice ha scelto di inserire, tra i vari capitoli, anche la voce diretta di alcuni personaggi, creando, così, una specie di diario, o estratto personale, che permette di conoscere meglio le figure che hanno avuto contatto con Judith. Questa fase permette al lettore di entrare nell’indagine e di seguire con maggiore attenzione le fasi salienti della narrazione.

Avvincente e stimolante è l’ambientazione che l’autrice ha scelto per mettere in scena i fatti chiave: siamo sempre in prossimità di un evento culinario. Anche in questo caso, il netto contrasto è evidente: l’evento che per sua natura è piacevole diventa un guaio dai contorni nebulosi. Non aspettatevi, però, un quadro culinario dettagliato dei sapori cantabrici perché l’autrice ha preferito usare i piatti come sfondo, e nel complesso, il risultato è piacevole: tartine gustose, aperitivi ricchi, calici di vino bianco fresco, colazioni dolci e zuccherose, formaggi e pollo. Piatti adatti, semplici ma non banali perché inseriti nel giusto contesto narrativo.

La trama, come spesso accade nei romanzi gialli, è mezzo per affrontare questioni sociali ed emotive. Una di queste è certamente il ruolo della donna che, quando arriva al comando, deve dimostrare di essere all’altezza, sempre e comunque. Poi c’è il senso del dovere e del sacrificio, il dubbio, la voglia di farcela, il bisogno di giustizia. La famiglia, inoltre, qui ha un ruolo complesso che induce potenti riflessioni, e, infine, la speranza, di cui si parlava in premessa. Una speranza che succede, che si avverte, che è necessaria.

Ultima nota: Valentina Redondo ha dei precedenti. La sua fama, infatti, non inizia con quest’opera ma, per il momento, “Quel che la marea nasconde” è l’unica avventura tradotta in italiano. I romanzi, tuttavia, sono autoconclusivi.  

Si ringrazia Matteo Columbo dell’ufficio stampa per la copia lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

María Oruña (Vigo, 1976), laureata in Legge, ha esercitato per dieci anni come avvocato. Nel 2013 pubblica il suo primo romanzo, La mano del arquero, e nel 2015, con il successo internazionale di Puerto escondido, decide di dedicarsi interamente alla letteratura. Quel che la marea nasconde è il quarto libro della serie dedicata alle indagini di Valentina Redondo, e il primo tradotto in italiano.

Il sito della casa editrice è: http://www.ponteallegrazie.it

Post in evidenza

“Chiuse le pagine del libro – dialoghi e racconti” di Amelia Belloni Sonzogni.

“Guardala, anche oggi seduta al pc, controlla, cerca, scrive, invia mail… Certo che il libro è un bell’impegno anche dopo averlo scritto e pubblicato! E io, come posso aiutare?”

Qual è la strategia di marketing più efficace per vendere un libro? Fatevi avanti e non siate timidi, cari scrittori e lettori, perché questo è un argomento di interesse sempre attuale, che prevede logiche, abitudini, sapere tecnologico, psicologia, comunicazione e molto altro ancora. Come non citare, poi, l’evergreen e intramontabile “passaparola” che è alla base dei social media. Che dire, poi, delle recensioni in rete degli utenti, le quali aprono un ventaglio di analisi che potremmo studiare per giorni.

Insomma, la fatica dello scrittore non si conclude quando, svuotato di ispirazione, scrive la parola fine al suo testo. Anzi, appare chiaro l’impegno che la fase post scrittura richiede, una fase indispensabile, che l’autore non può estromettere dal suo piano di lavoro perché la promozione, e tutte le possibilità a suo supporto, sono e saranno sempre più parte del “pacchetto” libro. Ancor più indispensabile, quando l’autore è imprenditore di se stesso.

Amelia Belloni Sonzogni parte proprio da questo principio e introduce il lettore nel suo “Chiuse le pagine del libro – dialoghi e racconti”. L’idea è geniale: narrare le fasi della promozione di “Io ho sempre parlato – Vita di un cane unico con umani normali” attraverso la voce degli stessi protagonisti a quattro zampe, ripercorrendo le fasi che la stessa autrice ha messo in campo. (Qualche lettore ricorderà la trama del libro e l’interessante intervista che facemmo, ma per chi non ne avesse memoria o non l’avesse mai letta, di seguito trovate il link diretto: https://bood.food.blog/2021/01/14/io-ho-sempre-parlato-vita-di-un-cane-unico-con-umani-normali-di-amelia-belloni-sonzogni-youcanprint-boodperglialtri-boodinterviste-2/)

Chiuse le pagine del libro” è dunque un libro parallelo, un’appendice, un’idea originale per coinvolgere ulteriormente il lettore nello spaccato di vita che è stato “Io ho sempre parlato” anche se, l’autrice ci tiene a precisare che le due opere non sono indispensabili per la comprensione dell’una o dell’altra.

Lo stile narrativo è sempre lo stesso: i dialoghi tra Pedro e Giatt raccontano la vita dei loro umani preferiti, non risparmiano i momenti più commoventi della loro storia terrena e aggiungono quel pizzico di ironia che non guasta mai.

Per affiancarmi all’opera di continuità che ha iniziato l’autrice, ho voluto ospitarla, e sono felice che lei abbia accettato il mio invito.

Eccola!

VG: Buongiorno, Amelia. Bentornata.

ABS: Buongiorno Valeria. È sempre un piacere chiacchierare con te. Grazie per l’invito, ancora più gradito per la motivazione che lo ha generato.

VG: C’è un passaggio chiave, molto divertente, nel quale traduci in tre concetti ciò che hai compreso del marketing, passaggio che io non ho intenzione di svelare, ma che mi è piaciuto molto. Ti chiedo, invece, quale strategia di marketing proporresti a un autore emergente che inizia questa attività in solitaria, da autore self, per esempio?

ABS: Non la svelerò neppure io, ma posso dire di condividerla in pieno, almeno per la mia esperienza. Mi sento l’ultima in grado di suggerire o proporre una strategia di marketing, considerato che solo la parola produce in me lo sconcerto di chi con i numeri, le statistiche, i piani cartesiani e i conti ha poca confidenza. Però, come hai sottolineato, la promozione è indispensabile per chi si auto pubblica e forse anche per chi si affida a un editore, almeno per quel che ho letto e per come vedo “muoversi” sui social altri autori che hanno scelto strade tradizionali. Di sicuro parte in vantaggio chi per età e formazione ha dimestichezza con il mondo digitale e/o ha studiato la materia, il marketing appunto. Tuttavia, anche chi ne è a digiuno come me e, per anagrafe, è un “adulto digitale” può trovare in rete indicazioni su come agire.

Anche qui però, bisogna saper scegliere. Ho infatti notato, spesso, un’enfasi eccessiva, a volte fuorviante, quasi a voler ingigantire questioni per me banali, quando non inesistenti. Quando ho letto ad esempio del “piano editoriale”, ho pensato a qualche suggerimento concettuale, anche se – da storico – so bene che la linea editoriale di quanto proponi, più ti appartiene in senso letterale e meglio funziona. Mi aspettavo comunque qualcosa di speculativo… invece cos’era? Istruzioni per l’uso di un’agenda. Ora, dalle scuole elementari si dovrebbe imparare a gestire un diario, e a organizzarsi tempi e modi dello studio e poi del lavoro; fa parte della formazione personale, dovrebbe essere un prerequisito. Ma tant’è. Questo si trova: pagine e pagine di suggerimenti, preceduti da pagine e pagine di considerazioni, a caratteri cubitali con interlinea largo, di una ovvietà di frequente disarmante, che si devono comunque vagliare, mettendo in conto, a volte, di pagare profumatamente e, sempre, di sottrarre tempo alla scrittura per impiegarne anche a decidere di non prendere in considerazione nulla di quanto letto.

E io ho fatto così: ho letto, tenuto presente quel che mi è parso sensato e scartato tanto; poi ho rielaborato, forse in modo un po’ naif, cercando di “produrre” qualcosa che prima di tutto rispondesse al mio gusto e alla mia personalità, che raccontasse della mia scrittura e di me, che fosse coerente: detesto essere petulante e con la promozione il rischio è altissimo; quindi, cerco di dosare la mia visibilità con il contagocce e di apparire quando ho davvero qualcosa da dire.

In ogni caso molto dipende dalle aspettative: e questo libro ne è insieme racconto e dimostrazione. La promozione di «Io ho sempre parlato», realizzata anche attraverso i dialoghi che sono diventati «Chiuse le pagine del libro», ha portato risultati impensabili, forse minimi per alcuni, magari risibili per altri, ma per me di grande soddisfazione perché frutto del mio lavoro. «Anche qui dimorano gli dèi» diceva Eraclito: le strategie roboanti potrebbero rivelarsi fallaci, vanno rivalutati quei risultati a torto considerati piccoli. Ad ogni modo, qualunque sia l’obiettivo prefissato, ci vuole molta pazienza, dedizione e un certo intuito abbinato al buon gusto, alla percezione di cosa potrebbe catturare attenzione. Capita anche, in rete, di incrociare realtà concrete e immediate, come il portale in cui si possono inserire i propri testi per una loro promozione. È gratuito e ha quasi raggiunto la soglia dei due milioni di lettori. Se posso citarlo, è Writer Officina, biblioteca «degli scrittori ribelli» ma aperta a tutti. L’anno scorso è stato indetto un concorso tra le opere inserite e il mio «Io ho sempre parlato» ha superato le selezioni arrivando secondo. I dialoghi di «Chiuse le pagine del libro» sono nati proprio per rispondere all’esigenza di raccogliere voti, di promuovere in modo accattivante. Direi che hanno funzionato.

Stiamo parlando sempre di prevalente utilizzo di rete e social. Non ho preso in considerazione le classiche presentazioni in libreria (il firmacopie, per intenderci). Da un lato la pandemia ne ha impedito lo svolgersi, dall’altro non so quanto oggi possano essere davvero efficaci. Nella scelta hanno avuto un peso anche le mie esperienze passate oggi irripetibili, specie per il genere di scrittura al quale ora mi dedico. Alle presentazioni dei miei libri di storia a Milano si sono riempite nel 1990 l’aula Pio XI della Cattolica, nel 1993 la sala napoleonica di palazzo Serbelloni, nel 1998 la sala convegni della Cariplo. [Chi fosse incuriosito, può leggere di cosa mi sono occupata cliccando qui: https://ameliabellonisonzo.wixsite.com/iohosempreparlato/sono-una-storica. Troverà immagini, recensioni, approfondimenti in proposito e il tipo di promozione effettuata all’epoca]. I tempi erano decisamente diversi e l’organizzazione spettava al promotore del libro e all’editore, ma non so se oggi anche una CE di rilievo possa ottenere gli stessi risultati. Di sicuro il parametro non è più costituito dai partecipanti alla presentazione, ma dalla cifra sotto la riga dei ricavi.

Per concludere, le strade da percorrere alla fine sono quelle note: passaparola, post, interviste, recensioni ma anche lettura ad alta voce. Questo strumento penso abbia una grande potenzialità e l’ho sperimentata grazie all’aiuto di Raffaella Marchegiano e Rossella Sabato, titolari di RR audiolibri, che hanno realizzato una presentazione audio-video di autore e libro con lettura di un estratto. Hanno portato la lettura di un capitolo anche in radio. Sentire leggere il proprio testo da voci professionali è davvero emozionante ed efficace. Da parte mia amo la semplicità, la pulizia, l’essenziale e cerco di conformare i miei modi espressivi a questi parametri. Il grimaldello comunque credo sia l’originalità, che è un po’ come il coraggio manzoniano, se non ce l’hai, non te lo puoi dare.

VG: Nei tuoi scritti, avverto sempre una scia di dolcezza, come ho scritto dopo la lettura del tuo “Anime animalihttps://bood.food.blog/2021/12/20/anime-animali-di-amelia-belloni-sonzogni-boodperglialtri/. La dolcezza permane, anche in quest’ultimo testo, ma questa sensazione è arricchita di malinconia e ironia. Come descriveresti l’impatto che ha la scrittura in te, e come hai capito che era tempo di “scrivere” per continuare a parlare di Pedro e Giatt?

ABS: Credo nell’indole e nelle innate capacità che devono però essere coltivate e sviluppate, aiutate a manifestarsi in pienezza. Purtroppo, non mi è capitato di seguire questo percorso. Persone e casi della vita mi hanno spinto verso altri settori, anche se la scrittura ne ha fatto parte. I miei primi libri, come ho detto, sono saggi storici, in particolare biografie di personaggi della società milanese e lombarda tra la fine dell’800 e il ‘900 e qualcosa di romanzesco c’era di sicuro in quelle vite, non fosse altro che per i periodi storici in cui si sono collocate. Nonostante l’immedesimazione – necessaria a comprendere il personaggio e a sviluppare ipotesi interpretative con l’ausilio della documentazione d’archivio e dell’intervista ai testimoni – tra me e la mia scrittura da “saggista” c’era sempre un filtro, un diaframma. La necessaria obiettività critica dello storico mi separava dalla pagina. Devo dire però che quando ho cambiato genere mi è tornata molto utile nella rilettura dei miei lavori; si è rivelata cioè uno strumento essenziale nell’opera di revisione, il famoso lavoro di editing. Per rispondere in modo più diretto alle tue domande, la scrittura ha su di me lo stesso impatto dell’acqua del mare quando mi ci tuffo (adoro tuffarmi e nuotare). E più che capire che era il momento di scrivere, è stato il bisogno di superare un dolore straziante, trovargli un senso, dargli una finalità, benefica anche nel caso di questo libro. Lo sarà per tutti gli altri che spero di pubblicare.

VG: Vivere con un amico a quattro zampe richiede impegno e perseveranza. Da entrambi i “lati” (umano e non), tuttavia, c’è un meccanismo che è indispensabile e che va curato. Mi riferisco alla fiducia. Ci daresti una tua definizione di questo concetto che, purtroppo e a volte, non consideriamo per la sua importanza?

ABS: Se parli della fiducia dell’umano verso il cane/animale, non so risponderti perché per me è innata, è una sorta di dimestichezza, familiarità, abitudine, sintonia. Fatte le dovute premesse in termini di prudenza e rispetto, io non so cosa sia la paura nei confronti di un animale; forse perché mi è stato insegnato come avvicinarlo. Parlo logicamente di animali domestici, ma penso che anche nei confronti di un animale selvatico – che purtroppo non ho mai visto libero in natura – sarebbe lo stesso. Ecco, forse solo l’idea di potermi trovare a tu per tu con uno squalo mi incute spavento e la fiducia scema. Se l’umano ha un ruolo da svolgere, a mio parere è proprio quello della protezione e cura degli animali; del mettersi – e non ho detto abbassarsi – al loro livello cercando una comunicazione che sarà molto più complicata per lui che per loro. E le prefazioni ai miei testi scritte dal prof. Raffaele Mantegazza ne sono un significativo approfondimento. Ma tu mi hai chiesto una definizione: allora direi conoscenza, ascolto, rispetto reciproco. Per l’animale (il cane in particolare) è istintivo e immediato, ne è capace e lo attua; per l’umano un po’ meno. E poi l’affidarsi. Il modo in cui un cane ti si affida quando ti riconosce come suo umano, questa è la fiducia, che genera appartenenza e se ne alimenta. Avviene per amore, per contaminazione tra umano e animale, quando si parlano le rispettive anime.

VG: Siamo a pagina 10. Stai parlando di cinghiali. Chiedi a Pedro se si ricorda “quelli che passavano davanti alla finestra, nella casa in Sardegna”. Lui risponde: “Certo. Ricordo anche il tuo terrore che io li incontrassi in uno dei miei giri “fuori zona di sicurezza”.  Tu specifichi che morivi “di paura, ogni volta”. Questo breve passaggio racconta molto del tuo rapporto con i tuoi piccoli amici. Io leggo apprensione e protezione. Chi sono, per te, Pedro e Giatt?

ABS: Sono due esseri speciali, ciascuno con le proprie caratteristiche, direi anzi caratteri, e modi di comportarsi, reagire e interagire diversi, ognuno delineabile e riconoscibile, come ho provato a raccontare. Pedro non è stato il primo cane entrato nella mia vita, ma di sicuro è il primo totalmente «mio», con cui ho vissuto in modo simbiotico in un periodo determinante, per certi aspetti sconvolgente, della mia vita; con lui ho davvero «parlato» su frequenze altre. Apprensione e protezione fanno parte di me: sono aspetti del mio carattere – ereditati da mio padre – che riverso su chi amo: amo Pedro anche se non c’è più fisicamente, amo Giatt, buonissimo, di una tenerezza disarmante, bisognoso di protezione più di Pedro perché meno sicuro di sé. Loro sono parte di me e del mio piccolo nucleo famigliare. Mi permetto di dire che dovrebbe essere così per tutti – e per molti per fortuna lo è.

VG: Ci sono lunghi passaggi dedicati all’orto. Sembra quasi di sentirlo, il profumo dell’ulivo in fiore e delle susine mature. Come sai, io sono una sostenitrice della coltivazione casalinga (anche se non sono un’esperta, ma ci sto lavorando…). Dacci qualche indicazione, suggerimento, qualche furbizia, per una gestione sana delle piccole coltivazioni domestiche.

ABS: Nell’orto passo sempre più tempo: la tranquillità, la pace, il senso di libertà che provo su quell’angolo di collina è pari a quello che mi trasmette il mare, anche se l’impegno fisico è diverso e stancante, ma si lavora in letizia. In realtà, l’artefice dell’orto è mio marito; quindi, per rispondere compiutamente alla tua domanda dovrei far parlare lui, che – pensa – ai tempi dei nostri primi incontri si era presentato come uno che riusciva a far morire anche le piante di plastica. Invece, non dovrei essere io a dirlo ma lo dico ugualmente perché è la verità, è riuscito, con il mio saltuario aiuto di manovalanza, a realizzare qualcosa di ammirato da tutti i vicini. E questo è per noi una vera soddisfazione. Indicazioni e suggerimenti? Un unico principio: evitare qualsiasi componente potenzialmente dannosa per la terra, per i prodotti e per noi che li mangiamo. Questa è l’unica furbizia, se così si può definire; è come quando cucini: quello che metti in pentola, trovi nel piatto. Però, è stato determinante osservare all’opera le mani di chi ha più sapienza di noi. Qui in Liguria, dove abito, è difficile trovare qualcuno che non abbia un orto. A loro, agli amici, dobbiamo moltissimo.

VG: Un altro argomento che tratti spesso, in quest’opera, è il cibo sano che hai introdotto anche nella dieta dei tuoi amici pelosi. Sfiori la questione legata alla pesca, in qualche passaggio, ma descrivi chiaramente cosa pensi a riguardo. Ideologia, salute o entrambe?

ABS: Entrambe, anche perché penso che nel caso del cibo siano inscindibili. Non può essere sano, non è sano (credo lo abbiano anche dimostrato scientificamente) un cibo derivante da sofferenze che sempre più di frequente si rivelano atroci, e tralascio la questione di come sono alimentati gli animali, di terra e di mare, negli allevamenti intensivi. Alle Canarie si stanno predisponendo allevamenti di polpi! A me pare aberrante, una totale distorsione degli equilibri esistenti in natura (o in quel che ne resta) e ancora tutto si compie in nome del dio denaro, che non puzzerà ma è sempre più sudicio. Su questo argomento mi trovo in totale sintonia con una delle poche giornaliste d’inchiesta degne di tale nome attive in Italia: Sabrina Giannini. A lei, infatti, ho pensato quando mi è venuta l’idea di affidare a volti noti la promozione del primo romanzo. Al titolo della sua trasmissione «Indovina chi viene a cena» è ispirata «Indovina chi lo ha letto», la mia piccola campagna pubblicitaria basata su un’idea semplice: la foto di un vip con il mio libro in mano. Ho trovato una persona deliziosa e con l’aiuto della sua press agent (Chiara Giuria Cortese) nel giro di breve ho visto esaudita la mia richiesta. Altri poi si sono aggiunti: Franco Frattini, oggi presidente del Consiglio di Stato, di una cortesia squisita; Fulvio Marino, panificatore e volto noto di Rai 1; Luca Macario sindaco di Torre Boldone e il suo assessore alla scuola e cultura, Manuela Valentini, che si è fatta tramite per raggiungere Anna Ferruzzo e Massimo Wertmüller, che per gli animali si spendono da sempre. Sono tutti raccolti qui:  https://ameliabellonisonzo.wixsite.com/iohosempreparlato/indovina-chi-lo-ha-letto Da tutti, ho ricevuto disponibilità immediata. E poi, primo a parlare del libro su Twitter, uno scrittore che si cela dietro lo pseudonimo di Johannes Bückler ha creato per Pedro e Giatt una storia delle sue. E così, indirettamente, sono tornata a parlare della promozione: forse perché ho cercato di darle un’impronta precisa, riconoscibile e coerente

VG: Parliamo di copertina. L’hai scelta tu oppure è frutto di un lavoro “esterno”?

ABS: Nella logica di quanto ci siamo dette fin qui, anche la copertina è un fattore importante dell’operazione marketing. E può essere un tasto dolente: se non si vuole o non si può ricorrere a un professionista, bisogna imparare a utilizzare programmi di grafica; per quanto semplici e intuitivi, richiedono talvolta competenze specifiche. Ho provato a far da sola con il primo libro, poi è arrivato in mio soccorso il provvidenziale supporto di un amico più capace, fino a quest’ultima che, come si può vedere dall’immagine, reca il logo di Writer Officina perché è stata la prima realizzata da questo portale anche con lo scopo di pubblicizzare il servizio gratuito messo a disposizione degli autori. Ed è la responsabile della decisione di giungere a patti con la mia idea originaria di scegliere una realtà italiana per la pubblicazione. Chi decide di essere imprenditore di se stesso deve tener conto dell’aspetto economico, a maggior ragione se il ricavato di quanto propone è destinato in beneficenza. Pubblicare a costo zero e ottenere maggiori percentuali sulle vendite costituisce la classica offerta che, nel mio caso, diventa doveroso non rifiutare.

VG: Perché un lettore dovrebbe acquistare il tuo libro?

ABS: Spero ne sia incuriosito, invogliato all’acquisto dalla lettura delle recensioni e delle impressioni di altri lettori, finora poche ma direi ottime, incentivato a contribuire a una buona causa. Come per «Io ho sempre parlato», anche questa sua naturale appendice prevede che tutto il ricavato delle vendite vada a SOS primo soccorso cani&gatti onlus di Palermo, più noto come “Il rifugio di Francy Cognato”, realtà di cui abbiamo già parlato e che prosegue nel suo impegno tra le difficoltà di una terra in cui purtroppo gli animali sono troppo spesso maltrattati. E spero che quanto nel mio piccolo racconto porti chi legge a riflettere e possa contribuire a cambiare il predominante punto di vista umano-centrico. È deleterio per tutti.

VG: Raccontaci, se puoi, i progetti letterari (e non) ai quali stai lavorando.

ABS: In attesa di andare un po’ in mare, in questo periodo l’orto mi/ci assorbe quasi totalmente: Giatt se la gode libero e felice a caccia di lucertole che non cattura, io trovo spunti per la riflessione e la scrittura. Proprio vicino all’orto sono nate, dall’incontro fortuito e bellissimo con un’upupa, le mie scritture brevi; per ora si susseguono in «Estemporanea», la pagina dedicata del mio sito web. Questo il link per chi volesse leggerle: https://ameliabellonisonzo.wixsite.com/iohosempreparlato/estemporanea-scritturaimprovvisa-coglilattimo  Prima o poi spero scriverò il romanzo storico che ho in mente da tanto, con cui vorrei mantenere una promessa. Ho in corso due lavori di cui i cani non sono il fulcro: uno ha come argomento il mio luogo del cuore, l’altro toccherà un tema spinoso riguardante gli anziani; altra promessa da mantenere è quella di raccontare di un uomo che in quattro minuti ha visto sparire (pare una contraddizione in termini, ma purtroppo rispecchia la realtà accaduta) il proprio cane e ancora lo cerca. Nel frattempo, leggo e rileggo: mi piace riprendere in mano vecchi libri, scegliere autori emergenti (e ce ne sono di bravissimi) e scrivere le mie «note a margine», titolo della sezione del mio sito dedicata a questo impegno che va articolandosi sempre più e che si trova qui, sempre per i curiosi: https://ameliabellonisonzo.wixsite.com/iohosempreparlato/ho-appena-letto Speriamo di riuscire a mantenere tutte le parole date.

VG: Noi te lo auguriamo.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Amelia Belloni Sonzogni, nata a Milano, già insegnante di lettere e storica, si dedica ora alla scrittura per il piacere di raccontare e con lo scopo principale di aiutare le creature deboli e indifese, cani soprattutto. Per approfondire e curiosare, clic qui: https://ameliabellonisonzo.wixsite.com/iohosempreparlato/chi-sono

Post in evidenza

Curare l’orto per curare noi stessi.

Quando l’ortoterapia diventa un modo per creare legami con gli altri e con noi stessi.

Orto by Pixabay

L’orto una possibilità di crescita per tutti.

“Tenere un orto non è semplice, è un impegno costante, un lavoro faticoso. E, qualche volta, nonostante l’attenzione e la cura, il risultato non è all’altezza dei nostri desideri. Può arrivare la grandine che distrugge, o la pianta può ammalarsi. Succede. Perché qualche volta, anche se garantiamo il nostro impegno totale a un progetto, ci sono fattori esterni che non possiamo controllare. E allora, che si fa? Ci si rialza, si ricomincia, con ancora più impegno e voglia di costruire.” Citazione tratta dal mio libro Diario culinario di una mamma in quarantena, Edizioni Convalle.

L’ortoterapia: un metodo curativo.

Fin dall’antichità, l’uomo ha messo le mani nella terra. La storia narra che fu la Mesopotamia, migliaia di anni fa, a concedere all’uomo nomade la possibilità di fermarsi e di costruire una vita sedentaria, legata alla terra, ai frutti che lei poteva offrire, e al lavoro quotidiano che era necessario al fine di raccogliere gli stessi frutti. La storia che i nostri antenati hanno vissuto è cambiata totalmente, quando è stata avvertita l’importanza di dedicarsi a un lavoro costante, quotidiano, manuale e cognitivo che ha permesso all’uomo di modificare la propria alimentazione. La storia attuale, ricca di tecnologia e modernità ma di eventi catastrofici, racconta lo stesso principio, anche se più nascosto: la terra è il fulcro della nostra alimentazione, della nostra vita presente e futura. La terra, tuttavia, non ricopre solo un valore pratico ma si pone in un ottica sempre più legata al bisogno di creatività e di distacco dalla realtà che l’uomo moderno sta vivendo. Lo stress legato al lavoro, alla continua corsa contro il tempo (un tempo che ci tiene legati, come se fosse un cappio al collo) e ai ritmi quotidiani in generale, ha contribuito a riportare l’attenzione su quanto un’occupazione manuale sia d’aiuto per ripristinare il normale equilibrio psicofisico. Mi riferisco all’ortoterapia – o Horticultural Therapy – una disciplina che, affiancata a un’adeguata terapia medica, ha come obiettivo una rinascita energetica dell’individuo ma non solo, visto e considerato che è stata introdotta anche come terapia di supporto a malattie come l’Alzheimer. In rete ci sono molti riferimenti a questa pratica che in Italia è stata introdotta e valutata positivamente da qualche anno, ma che potrebbe raggiungere una diffusione più capillare. Sono due gli articoli che più mi hanno convinto di più: il primo è quello di San Raffaele, il secondo porta la firma di un settimanale molto conosciuto: Donna Moderna. In entrambi gli articoli, viene posta attenzione su quanto positivo sia l’incontro con la terra, un incontro che non conosce limiti di età. Nonni, genitori, bambini… siamo tutti invitati a ricongiungerci, a respirare i profumi e a sentire la carezza dolce della terra sulla nostra pelle. I benefici sono molteplici. Viene coinvolta la sfera emotiva e quella cognitiva, la sfera sociale e comunitaria, il rispetto, la pazienza, il decision making, il problem solving, le attitudini che non sapevamo di avere e, ultimo ma non per ordine di importanza, la reale possibilità di portare in tavola prodotti sani, a Km 0. L’orto, dunque, è un terreno da coltivare, nel qual ventre l’uomo pone i semi del suo futuro ma anche del suo IO più vero, quello più nascosto che, spesso, egli tende a nascondere e a sopprimere.

Orto in vaso per chi non vuole rinunciare alla vicinanza con la terra.

Basilico by pixabay.

Se l’ortoterapia è una disciplina che si affianca anche al parere di un medico, efficace in spazi adeguati e promossa da professionisti del settore, la possibilità di avvicinarsi alla terra e di trarne beneficio è realmente per tutti. Da qualche anno ormai, è sempre più consolidato il metodo di coltivazione urbana. I vantaggi, anche in questo caso, sono numerosi: l’economia domestica, il desiderio di cibi di freschi e sani, la voglia di creare qualcosa con le proprie mani, e la soddisfazione di vedere i propri frutti nascere, crescere e diventare “grandi”. Lo spazio verde ha un potere benefico sulla creatività che molto spesso viene azzerata a causa della frenesia a cui ci siamo abituati ed è uno spazio adatto anche al pensiero, all’ascolto di quella voce interiore che mettiamo a tacere, a volte per paura di ascoltare ciò a cui non siamo preparati. Non solo. Nella fase delicata delle decisioni, quelle che ci premono e che ci tolgono il sonno, il potere di un orto da coltivare è potentissimo: la mente di distrae ma non abbandona il progetto, anzi, è vero il contrario perché nella fase del distacco appare, seppur lentamente e a passi graduali, l’insight: quella percezione che illumina la direzione da prendere. Provare per credere.

Uno dei metodi per la creazione di uno spazio verde urbano e cittadino, adatto a chi non ha un giardino, è l’orto in vasi per balconi e terrazzi. Una soluzione pratica, possibile anche in aree limitate. Vediamo, in seguito, alcuni consigli ed esempi pratici per realizzare un orto in vaso.

Le piante che più si prestano al metodo “vaso” sono: pomodori, fagioli e fagiolini, carote, patate e le erbe aromatiche come il timo e il rosmarino. Per ogni pianta, tuttavia, è necessario rispettare la sua natura: il momento migliore per la semina, il bisogno di luce o la protezione dal freddo, lo spazio necessario alla crescita, l’irrigazione. Ogni pianta, infatti, seppur simile nei bisogni, ha necessità di essere inserita in un habitat che ne rispetti il suo più profondo equilibrio. Come noi. Anche noi siamo simili nei bisogni ma diversi nelle percezioni, nelle sfaccettature, nei dettagli. Ho trovato un articolo particolarmente dettagliato che spiega in dettaglio ma in maniera semplice ed esplicativa come creare un orto in vaso e quali sono le regole da rispettare: si tratta di Orto da Coltivare. All’interno della sezione dedicata a ogni pianta, l’autore ha elencato suggerimenti e indicazioni, una sorta di guida pratica che risponde a molte domande. Particolarmente interessante è, ancora, il messaggio che l’orto in vaso porta con sé: non è indispensabile disporre di spazi immensi. L’orto in vaso è davvero adattabile, a patto che si rispetti la pianta. Un ulteriore aspetto che merita di essere citato è l’unione che questa esperienza può portare, a livello familiare. Tutti – grandi, adolescenti, piccoli – possono contribuire alla nascita e alla cura della pianta, ciascuno portando la propria competenza, fantasia e creatività. Un modo, dunque, per rinsaldare legami e per concedersi una pausa da condividere. Un tempo scandito dal lavoro e dall’impegno che possiede un valore prezioso, non calcolabile.

Come fare per creare l’orto in vaso limitando le spese.

ortoterapia, orto in vaso
Tomato’s plant by pixabay.

L’aspetto economico merita una riflessione. Molti lettori, durante la lettura, si saranno già posti la domanda che, spesso, è quella che ci blocca, o che ci spinge in una decisione oppure, al contrario, ci obbliga a desistere. “Quanto costa creare un orto sul balcone? Conviene davvero?”. Non esiste, secondo me, una risposta unica e tombale. Questo perché i bisogni sono diversi, se applicati alla dimensione famigliare e lavorativa e anche in ragione del luogo in cui si vive. In questo articolo, mi limiterò a proporre idee e consigli validi ad aprire un varco che, spero, vi indirizzerà verso la soluzione più adatta alle vostre esigenze. La prima riflessione è legata al rapporto tra costo e utilizzo familiare del prodotto che avete deciso di piantare. L’insalata è quasi sempre presente sulla vostra tavola e siete in quattro, pranzo e cena. Questo indicatore rappresenta un largo consumo dell’ortaggio e, pertanto, si potrebbe vagliare l’idea di coltivarlo in casa. I pomodori freschi fanno parte della vostra cucina in maniera sporadica e due dei tre componenti della famiglia non li apprezzano, se crudi. In questo caso, vale la pena soffermarsi sul rapporto prezzo/consumo perché quando la pianta regala i suoi frutti e se questa è sana, il raccolto è discretamente abbondante pertanto l’ortaggio va proposto spesso, anche ed eventualmente in varianti.

Dopo questo excursus che conferma l’importanza di attivare un ragionamento personalizzato e mai influenzato dalle mode del momento, vi propongo di seguito una serie di possibilità di risparmio per creare il vostro orto sul terrazzo.

La prima possibilità di risparmio riguarda i contenitori e i vasi. Guida Giardino propone una serie di idee che ho trovato interessanti e molto originali. I miei preferiti sono la cassa di legno o i bancali, i sacchi di juta, una vecchia scatola di legno e le scatole di latta. Non userei mai i libri, invece, che, per ovvia deformazione professionale, considero sacri. In ogni caso, sono tutti oggetti di recupero che possono abbattere il costo del vaso.

Il secondo aspetto da considerare è il costo dell’impianto di irrigazione. Secondo Mondo Irrigazione, l’irrigazione a goccia è il metodo migliore e più efficace per rispettare la natura della pianta. In questo articolo c’è una spiegazione dettagliata su come creare un impianto dai da te. I più green potrebbero anche recuperare l’acqua piovana sfruttando i canali del tetto e riempiendo secchi e/o bottiglie. (Fate attenzione, tuttavia, in estate; come sapete le zanzare sono amiche dell’acqua stagnante).

Per quanto riguarda il terriccio, invece, è ancora Orto da Coltivare a fornire buoni suggerimenti, secondo me, anche se il richiamo ad acquistare sacchi di terra biologica – soprattutto per chi è alla prima esperienza – è uno dei suggerimenti che io ho seguito e che continuo a seguire. La terra, infatti, è alla base della sopravvivenza della pianta, l’equilibrio è fragile e delicato. Tuttavia, chi volesse spingersi in un’avventura nell’avventura potrebbe fare da sé l’humus di lombrico – considerato un amico delle coltivazioni in vaso – e questo potrebbe essere interessante, sotto l’aspetto economico. Esperienza laboriosa, certo, ma sappiamo che coltivare un orto significa proprio questo: cura, impegno, sacrificio, dedizione e pazienza. Una serie di elementi chiave, dunque, che sono alla base dell’esperienza umana che, qualche volta, tendiamo a dimenticare.

Post in evidenza

“La Fiamma della Vendetta” di Marcella Nardi.

“… Joe fu tentato di dirle che le strade di Los Angeles non erano lastricate di oro, ma di scatole di cartone.”

Che differenza c’è tra un sogno e una possibilità? Il sogno è un fenomeno attribuibile a una visione, a un’illuminazione e a un insieme di immagini che spingono l’Uomo verso un futuro nel quale egli vorrebbe vivere. La possibilità è, forse – e sottolineo, forse – una percezione più realistica di una visione che, in seguito a una catena di eventi, potrebbe avere luogo. Questa è la mia opinione, a riguardo, ma non vi nego che ho molti dubbi, circa la differenza sostanziale dei due concetti. Un sogno può diventare una possibilità? E, se sì, cosa siamo disposti a sacrificare per concede una possibilità al nostro sogno?

Quest’ultima domanda mi è apparsa più volte, durante la lettura dell’ultima opera di Marcella Nardi, dal titolo “La Fiamma della Vendetta”, con protagonista l’ormai famoso avvocato Joe Spark. La trama di questo Legal Thriller inizia con un incendio che si sviluppa nel laboratorio di Connor Bradley, il tatuatore di origini irlandesi amico di Joe, e prosegue con una serie di incidenti, tra i quali appaiono affascinanti donne che colpiscono Joe, non solo per la loro bellezza. Chi ha già letto in passato le avventure dell’avvocato di Seattle ritroverà – con piacere – la sua arguzia e l’attenzione che egli pone nei casi in cui si imbatte nonché la sua umanità che, insieme al bisogno di giustizia, lo hanno reso una vera icona. Ancora una volta, Marcella Nardi porta il suo protagonista in un viaggio dentro sé, tra i suoi ricordi, nei sentimenti che vorrebbe archiviare una volta per tutte ma che, purtroppo, gli resteranno addosso, in questo romanzo e forse, come accade nella vita reale, per sempre.

La citazione che ho tratto dal libro è all’interno di uno dei passaggi chiave, che non vi svelerò. Tuttavia, rappresenta un concetto che, come ho scritto poc’anzi, mi ha colpita moltissimo. Marcella Nardi vive negli Stati Uniti e la serie legata alle indagini di Joe Spark è ambientata a Seattle. Tale ambientazione racconta, seppur qualche volta in modalità nascosta, la società reale. L’America e il sogno che essa rappresenta, l’immigrazione che è stata – ed è ancora – un viaggio verso un futuro migliore, il taglio col passato, il voler migliorare la propria condizione economica e sociale. “La Fiamma della Vendetta” mi è piaciuto anche per questa ragione: non è solo un romanzo giallo. Io ho vissuto questa lettura come un mezzo per riflettere sul cambiamento, sul sogno di una vita migliore e sui mezzi che, qualche volta, l’Uomo usa per raggiungere il suo fine, su chi sia davvero la vittima e chi il carnefice, su quanto conti – davvero – il bisogno di trovare il proprio posto, in relazione al contesto in cui si vive, in cui si cresce.

Infine, come non citare le abitudini di Joe che convincono sempre e che delineano ulteriormente la sua personalità. Mi riferisco ai boccali di birra e i pranzi abbondanti che non si nega mai, ai sandwich della pausa pranzo, al caffè che, all’occorrenza, sa creare intimità e all’immancabile Johnnie Walker che crea l’atmosfera per le confidenze.

Consiglio di lettura: leggete “La Fiamma della Vendetta” se avete voglia di abbinare un buon giallo a una serie di considerazioni sulla società moderna.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Marcella Nardi nasce nel ridente borgo Medievale di Castelfranco Veneto. Si laurea in Informatica, campo in cui lavora per ventidue anni, tra Segrate e Milano. Nel 2008 si trasferisce a Seattle, USA, dedicandosi all’insegnamento dell’italiano, alle traduzioni tecniche e alla scrittura di romanzi. Molte sono le sue passioni: la Storia antica e medievale, la fotografia, i viaggi, la lettura, il modellismo storico e, soprattutto, una grande fantasia nella stesura di romanzi. Come amante di “gialli” e di Medioevo, Marcella si è classificata al terzo posto, nel 2011, al concorso “Philobiblon – Premio letterario Italia Medievale” con uno dei sei racconti che hanno dato vita al suo primo libro, un’antologia, dal titolo di “Grata Aura & altri gialli medievali”, la cui prima edizione si chiamava “Medioevo in Giallo”. Nel dicembre 2014 ha vinto il Primo Premio al concorso “Italia Mia”, indetto dalla Associazione Nazionale del Libro, Scienza e Ricerca, con un racconto ambientato a Gradara. Nel 2022, a novembre, Marcella conquista un altro importante traguardo: Riconoscimento Speciale per il genere Legal Thriller alla XII Edizione del Premio Internazionale Navarro.

Continua a scrivere e dal 2013 ha al suo attivo oltre 15 pubblicazioni. Ha creato due serie poliziesche: “Le indagini del commissario Marcella Randi” (6 romanzi in cui la detective è proprio lei: quasi lo stesso nome e con le sue stesse caratteristiche, fisiche e caratteriali) e “Le indagini del detective Lynda Brown” (2 romanzi). Ha anche creato una serie di genere Legal thriller, ambientato a Seattle, USA: “Le indagini dell’avvocato Joe Spark”. Sulla scia dei mitici “gialli per ragazzi” degli anni ’60 e ’70, ha dato vita a una serie di Gialli Young Adult: “Le indagini di Étienne e Annabella”, dove due studenti universitari si cimentano a fare i detective.

Marcella Nardi ha anche scritto un romanzo mystery/storico dal titolo “Joshua e la Confraternita dell’Arca”, un paranormale, un romance/erotico e alcuni racconti. Si e’ anche cimentata in un riuscitissimo Spionaggio/Thriller & Suspense, dal titolo “Virus – Nemico Invisibile” e la quinta indagine dell’avvocato Joe Spark, dal titolo “Tutto Torna”.

Il suo sito web ufficiale è: www.marcellanardi.com

La sua pagina autore su Amazon è: Clicca qui

La sua bacheca Facebook è:

https://www.facebook.com/Marcella.nardi.5

Il suo gruppo Facebook di Cultura e Libri:

https://www.facebook.com/groups/Marcella.nardi.scrittrice/

Post in evidenza

“Stradario aggiornato di tutti i miei baci” di Daniela Ranieri, Ponte alle Grazie.

“ … l’anticipo e la fretta si sono impressi in me come su ceralacca: sono il codice, la parola d’ordine con cui affronto tutte le vicende che mi riguardano (dire che le affronto è impreciso, esagerato: il più delle volte le patisco, talvolta le schivo).”

“Continuiamo a innamorarci, nonostante siamo già stati delusi, nonostante abbiamo detto «mai più», come il Giappone, la Norvegia e l’Islanda continuano a cacciare le balene benché sia vietato dal 1986.” Citazioni tratte dal libro.

Sono rimasta sospesa, per qualche istante, davanti a tre parole consecutive e semplici, che nascondono, però, un potere cognitivo straordinario. “Continuiamo a innamorarci” scrive Daniela Ranieri nel suo “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” edito da Ponte alle Grazie e candidato al Premio Strega 2022: una semplificazione, questa, che apre significati che non puoi evitare. Perché continuiamo a innamorarci? Perché l’essere vivente è così profondamente legato all’amore, se questo, talvolta, sa essere una costante forma di delusione, sacrificio e impedimento? Perché continuiamo a perderci nelle pieghe dell’amore e nelle sue conseguenze spesso incomprensibili?

Daniela Ranieri usa la forma diaristica, ma non ordinata in senso temporale, per condurre il lettore nel suo mondo, nella sua quotidianità, nella sua personale narrazione di amore –  relazione – affettività con una penna ironica e pungente. Una scrittura, quella dell’autrice, ampia, descrittiva, metaforica, originale: ho amato i doppi punti ripetuti all’interno della stessa frase, una sorta di marcatura e connessione delle informazioni e quel modo di stravolgere la scrittura, rendendola uno specchio della realtà.

Nel suo scrivere, l’intensità delle relazioni e dell’affettività si spande come un profumo nell’aria: per tutta la durata delle quasi settecento pagine, il lettore si trova dentro, accerchiato, impossibile uscire perché le vicende e le sensazioni hanno il sapore imperfetto della realtà ed è piacevole ritrovarsi nelle tante verità che l’autrice ha scritto.

C’è tutto, in questo libro-esperienza: il rapporto con il partner, la società, l’immagine della periferia, l’arte, la letteratura, la religione, la solitudine, la socializzazione, l’ansia, la salute, l’amicizia, gli amici a quattro zampe, un’analisi precisa e originale dei profumi (con tanto di nome brand) e molto altro ancora. L’ironia, come già anticipato, è una compagnia costante che rende piacevole – e ancora più autentica- la narrazione.

E per arricchire ulteriormente il viaggio, c’è un racconto culinario di grande valore, che accompagna le sue avventure e gli incontri, non sempre fortunati ma, proprio per questo, diventati a pieno titolo protagonisti del libro: la minestra di cereali viene analizzata nel suo profondo; il cioccolato è una consolazione; i vini del Carso supportano in viaggio a Trieste, profumi di rosmarino e menta impregnano una serata inaspettata. Questi sono solo alcuni elementi, citarli tutti servirebbe solo a confondere…

Confermo quanto pubblicato sulla quarta di copertina: “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” è un libro “caustico, labirintico ad alta definizione: il ritratto lirico e ironico di una donna alle prese con l’amore e altri disguidi nel mondo e della Storia. Il capolavoro di una scrittrice d’impareggiabile maestria”.

Consiglio di lettura: leggete “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” quando avete bisogno di una boccata d’aria o quando avvertite quel peso grave che opprime la vostra quotidianità e i vostri rapporti interpersonali.

Si ringrazia Matteo Columbo dell’ufficio stampa per la copia lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Daniela Ranieri, dopo gli studi di Antropologia culturale, ha conseguito un dottorato in Teoria e ricerca sociale. Ha scritto Tutto cospira a tacere di noi (2012), AristoDem. Discorso sui nuovi radical chic (2013) e Mille esempi di cani smarriti (2015), tutti per Ponte alle Grazie. Giornalista, scrive di politica e di cultura sul Fatto Quotidiano.

Post in evidenza

“A caccia dell’Albero della Vita – Un viaggio spirituale nelle tradizioni del giardino” di Maria Teresa De Donato e Anneli Sinkko.

 “Ci riferiamo alla Bibbia, che comprende il cosiddetto Vecchio e Nuovo Testamento e che molti considerano essere la parola inspirata da Dio. Qualunque sia il vostro approccio ad essa, vi invitiamo ad accettarla almeno come documento storico che può essere usata come una mappa per trovare una direzione mentre andremo A caccia dell’Albero della Vita”. Citazione tratta dal libro.

È stato il titolo. Non sempre succede, è vero, anche perché non sono solita fermarmi in superfice, quando scelgo i libri che vi propongo. Tuttavia, stavolta è stato diverso. Trovarsi davanti “A caccia dell’Albero della Vita” ha messo in moto una curiosità che volevo saziare. Ho iniziato, dunque, questa lettura in compagnia delle mie domande, certa che, durante la lettura altre ne sarebbero sorte.

Ho già avuto modo, in passato, di leggere la scrittura precisa e professionale di Maria Teresa De Donato e, invece, non ho mai avuto modo di incontrare quella di Anneli Sinkko, ma l’idea di entrare in questa simbiosi mi incuriosisce, ulteriormente.

Nel testo, incontro subito una particolarità. Le pagine dei riconoscimenti, delle note e delle biografie delle autrici aprono la lettura: un bel modo di introdurre l’opera al lettore che, a questo punto, ha già qualche risposta in tasca. Quando leggo “Abbiamo trascorso vari mesi in un giardino. Questo percorso è stato entusiasmante e difficile” mi viene spontaneo annuire: è facile immaginare il contrasto di sensazioni che l’entusiasmo e la sfida hanno generato – in egual misura, mi auguro – durante lo studio e, forse, anche nelle fasi successive.

Entrando nel vivo dell’opera, per la quali mi limiterò a un’osservazione generale senza svelare i tanti – tantissimi – concetti trattati, mi torna alla mente un’altra frase che ho letto e che riguarda la diversità di atteggiamento nei confronti della vita – e delle domande che in essa esistono –  che le autrici hanno citato: è uno spunto molto interessante, soprattutto perché siamo davanti a un’opera generata da due persone che, pur avendo certamente qualcosa in comune, hanno due menti, due anime e due cuori. Ognuno ha il suo ruolo, il suo vissuto, il suo essere. Questo messaggio mi rincuora e mi rinvigorisce, vista la moda che ci vorrebbe sempre più standardizzati e programmati.

La lettura prosegue e le analisi diventano fitte: le leggende, le religioni, la spiritualità, la realtà, le visioni, l’immortalità e la vita eterna, la scienza, la specie umana e le sue origini, le tradizioni, la linguistica e la filologia, i simboli e le allusioni, la saggezza, la libertà di scegliere tra il Male e il Bene, i sacrifici… giusto per citarne alcune. Mi colpisce anche lo studio svolto sull’etimologa dei termini e l’uso dei verbi, nei testi che le autrici hanno preso in esame.

Le fonti citate sono numerose, tutte elencate in maniera scrupolosa ed esauriente a piè pagina e in una nota finale e questo evidenzia lo studio della materia e il rispetto nei confronti dei testi in analisi e tutto porta alla domanda che si cela nel titolo: la ricerca dell’Albero della Vita.

Leggere questo testo non è facile, e non è una lettura immediata. C’è stato un impegno evidente, da parte delle autrici, di semplificare il più possibile il tema proposto per rendere la lettura più agevole e, certamente, più interessante. In una nota, si evince che “A caccia dell’Albero della Vita” è la somma della “scrittura di Maria Teresa De Donato e del materiale usato nella tesi di Master John 18-20 and the Garden Traditions: A Literary and Theological Reading del Reverendo Anneli Sinkko”. Mentre leggo, un altro messaggio edificante mi rincorre: lo studio può diventare un momento di condivisione e altruismo cognitivo, pur essendo, per sua natura, un’attività solitaria.

Non sono solita concludere i miei articoli con citazioni tratte dal libro stesso, ma stavolta, e in considerazione delle numerose riflessioni che hanno spinto le autrici a pubblicare, farò un’eccezione. E sono ben due – come due sono le autrici – le citazioni che vi propongo e che, spero, generino in voi una sana riflessione, soprattutto oggi, in questo presente che è sempre più coperto da fitte ombre che vogliono oscurare le nostre vite.

“… ci auguriamo che, a prescindere da quale sia il vostro credo spirituale e/o religioso, possiate concentrarvi, apprezzare e valutare il messaggio universale rivolto all’Umanità così come tutte le somiglianze e comunanze presenti in tutte le religioni che possono aiutarci a costruire insieme e ad accettare, possibilmente, di superare le nostre differenza, i nostri contrasti e i motivi che ci separano.”

Tuttavia, riteniamo che la libertà creativa porti anche all’indipendenza. E a volte l’indipendenza è la libertà dei confini. Nel creare gli esseri umani Dio ha dato loro la possibilità di resistere o non resistere alla tentazione. Diventa una questione di scelta.”

Si ringrazia Maria Teresa De Donato per il file lettura in omaggio.

Nota biografica delle autrici:

Dr.ssa MARIA TERESA DE DONATO

Romana di nascita, dopo aver studiato lingue straniere e giornalismo in Italia, si è trasferita negli USA dove vive da oltre 27 anni ed ha ultimato i suoi studi giornalistici presso l’American College of Journalism e conseguito cum laude le lauree Bachelor, Master e Dottorato di Ricerca in Salute Olistica presso Global College of Natural Medicine, specializzandosi in Omeopatia Classica ed in principi di Ayurveda e Medicina Tradizionale Cinese.  Un’appassionata blogger, dal 1995 ad oggi ha collaborato con varie riviste, giornali e periodici in qualità di giornalista freelance. Scrittrice eclettica, olistica e multidisciplinare è anche autrice di numerose pubblicazioni, tra cui due romanzi. I suoi libri sono disponibili su tutti i canali di distribuzione Amazon, librerie incluse.

Dr.ssa ANNELI SINKKO (Ministro di culto/Reverendo in pensione)

Madre e nonna di origine finlandese, vive a Brisbane, Australia. Conosciuta anche come Talatala dai suoi amici nelle Fiji e Auntie (Zietta) dagli Aborigeni australiani si è formata nella Chiesa luterana, prima in Finlandia e poi in Australia, divenendo poi Ministro di culto nella Uniting Church of Australia e, successivamente, missionaria nelle Fiji e tra gli Aborigeni dell’Entroterra di Inala, nel Queensland.  Dopo aver studiato all’Istituto Biblico, ha proseguito i suoi studi accademici prima al Trinity Theological College e, poi, all’Università del Queensland dove si è laureata a pieni voti in Filosofia della Religione.  Grazie ai suoi studi, Anneli è in grado di leggere sia l’ebraico classico sia il greco antico che, come l’aramaico, sono le lingue principali usate nelle Sacre Scritture (Bibbia)

Post in evidenza

“Nonostante tutto” di Francesca Lizzio, Panesi Edizioni.

“Il prezzo da pagare quando sei una persona forte è che nessuno ti viene incontro”. Citazione tratta dal libro.

Le boodinterviste.

Ci sono tanti modi per affrontare la vita. Frase banale? Solo in parte, mi permetto di dire. Le regole, i doveri, le aspettative, i valori sono così tanti che, a volte, subiamo eventi che non riusciamo a comprendere, e che, talvolta, ci appaiono come ingiustizie da cancellare. Eppure, nei tanti metodi di sopravvivenza che abbiamo dovuto elaborare, ce n’è uno, l’unico e insostituibile: essere noi stessi. Esserlo fino in fondo, però, senza deviazioni né facilitazioni, perché una volta un saggio diceva che sei capace di affrontare tutto ciò che la vita ti riserva, e credo non ci sia detto più efficace, più autentico.

Lo ha capito anche Cristina, la protagonista di “Nonostante tutto”, il romanzo di Francesca Lizzio, pubblicato da Panesi Edizioni.

Siamo a Catania, in un’epoca moderna, e lei si trova a dover affrontare un evento al quale non solo non è preparata, ma che le permetterà di attingere a quella forza che è presente in ognuno di noi, quella che, appunto, è l’unica in grado di farci affrontare le tante sfide della vita.

Il principio è la fine di un amore, le cui conseguenze le piombano addosso come una valanga emotiva che non le lascia tregua e che le impone un nuovo adattamento, un cambiamento, un inizio al quale si sente impreparata. Ha bisogno di essere forte, Cristina, e, al suo fianco, Erica e Bea – le amiche – trovano soluzioni al sapore di lasagne salvaumore, crostate che addolciscono pensieri e gelati che ne rallentano l’espansione. Ci sono poi le sorelle, Emma e Su, con le quali una pizza diventa un’occasione per dirsi la verità, la più crudele e scomoda di tutte. E nel mezzo, c’è la vita che corre, il futuro davanti, il passato che va affrontato, il lavoro, la casa, i profumi della Sicilia che non smettono di fluttuare, nonostante tutto.

Il romanzo di Francesca Lizzio fa parte di quelle letture che ti lasciano un retrogusto che fatica ad andarsene: la trama  – ben costruita  – a tratti si fa leggera e comoda, ma sotto questa superficie emergono con prepotenza aspetti umani di grande spessore che ti obbligano a riflessioni. Tante riflessioni.

Ecco perché ho invitato l’autrice a stare un po’ con noi e a rispondere a qualche domanda.

VG: Buongiorno Francesca. Benvenuta.

FL: Grazie a te per l’invito, Valeria.

VG: Rompiamo il ghiaccio: chi è Francesca Lizzio?

FL: È una domanda che mi crea sempre qualche difficoltà. Non perché non saprei cosa rispondere, ma perché avrei così tante cose da dire che non capisco quali siano realmente interessanti.

Ho trent’anni, molte cose di me sono cambiate più di quanto avrei voluto, altre invece per niente. Sono sempre la timida che parla poco e ha paura di disturbare, tanto per fare un esempio.

Per restare in tema “libri”, amo profondamente leggere Miriam Toews. In effetti, se mi soffermassi a pensare a tutti gli scrittori che amo ne verrebbe fuori un elenco senza fine.

VG: La prima domanda relativa al tuo libro riguarda la copertina. L’ho trovata romantica, dal sapore un po’ retrò. Quel quadrato di cielo, inoltre, mi fa pensare alla speranza, come se quello spazio fosse una via d’uscita. E l’ombrello arancione, di cui si vede solo il tessuto? Cosa significa?

FL: Ho scelto questa foto perché mi ricorda tantissimo l’atmosfera di Catania. L’ho trovata perfetta per la storia, soprattutto. Mi piace molto la tua interpretazione, desideravo che trasmettesse la speranza di riuscire a superare le difficoltà, un incoraggiamento a scavare dentro di sé e trovarne la forza… Nonostante tutto.

VG: Che cos’è, per te, Catania?

FL: Catania è una città che avrebbe tutte le potenzialità per diventare più bella, più pulita, più giusta… Ma lo si può dire di tanti altri luoghi, il punto resta sempre lo stesso: sono le persone che fanno le città.

VG: Con che criterio hai scelto i nomi dei tuoi personaggi? Fantasia o qualcuno ti ha ispirata?

FL: Scelgo i nomi semplicemente perché mi piacciono, a volte però nei caratteri dei personaggi inserisco le tracce di qualcuno che conosco. Sono scelte che compio istintivamente, non mi fermo a rifletterci, le sento giuste.

VG: Potremmo definire “Nonostante tutto” un romanzo al femminile, nel quale la difficoltà di essere donna viene interpretata a seconda delle vicende (e delle parole) delle tue protagoniste? E, inoltre, potremmo anche dire che se Cristina è la voce dominante le altre “guardiane” – come le hai nominate tu – sono voci indispensabili?

FL: Certamente. In questo romanzo ho cercato di mettere a nudo le difficoltà che noi donne spesso dobbiamo affrontare da sole, se siamo fortunate contando sulla presenza di una madre, una sorella, un’amica.

Immaginiamo la storia eliminando tutti i personaggi eccetto Cristina, sarebbe stata la stessa? O avrebbe dovuto imparare a convivere con una solitudine logorante, un senso di smarrimento, abbandono e inquietudine che l’avrebbe portata a chiedersi che senso avesse vivere così? Ne vale la pena? Senza nessuno a cui rivolgersi per parlare, per piangere, per ridere, nessuno a cui importi se hai mangiato, se stai bene, se hai bisogno di aiuto. L’immagine che viene fuori è il ritratto della tristezza da cui tutti cerchiamo di fuggire, a volte riempiendola con le persone sbagliate.

Chi ha sofferto raramente è disposto ad accontentarsi, accetterà piuttosto di stare da solo, nella speranza che non sarà sempre così. Cercherà di mantenere viva questa speranza, anche se ridotta a una debole fiamma di una candela immersa nel buio.

Sono tutte voci indispensabili, ognuna di loro è lo specchio di ciò che ha vissuto e del modo in cui ne ha fatto tesoro. Le storie degli altri si mescolano sempre, in qualche modo, alla nostra. È impossibile non lasciarsi coinvolgere (e cambiare) dall’incontro con gli altri, nel bene e nel male.

VG: Immagina una bilancia: metti sui bilancieri solitudine e amicizia. Da che parte pende “Nonostante tutto”?

FL: La storia di Cristina e delle sue sorelle mi ha portato a riflettere sul fatto che quando siamo chiamati a fare una scelta, ad affrontare qualcosa di cui abbiamo paura, siamo soli con noi stessi, anche se fuori da quella porta c’è qualcuno pronto a sostenerci. C’è differenza però tra l’affrontare quel qualcosa e avere qualcuno da cui correre una volta presa la nostra decisione e viverlo senza lasciare traccia.

È pura fortuna quando non c’è squilibrio tra i due fattori, quando la solitudine non è un macigno ma un rifugio temporaneo. Per questa ragione è importante apprezzare l’amore che ci viene dato e dimostrare di non darlo per scontato.

VG: Hai saputo raccontare con delicatezza i rapporti familiari difficili, segnati da eventi che lasciano cicatrici. Che ruolo ha, uno scrittore, quando affronta tali temi?

FL: Personalmente scrivo di ciò che conosco, non saprei fare altrimenti, significherebbe barare. Penso che uno scrittore debba fornire al lettore gli strumenti che gli consentiranno di immedesimarsi, di percepire una vicinanza coi personaggi, di provare dei sentimenti e delle emozioni.

Tutti noi custodiamo una storia e quando scorgiamo una traccia del nostro vissuto altrove, nel vissuto di un altro, ci sentiamo meno soli. Da lettrice è proprio questo quello che cerco in un libro e da scrittrice è questo che spero di riuscire a compiere.

VG: Raccontaci, se puoi, i tuoi prossimi progetti, anche non letterari.

FL: L’interesse verso ciò che scrivo di recente è aumentato notevolmente, con mia immensa gioia e incredulità, per cui ritengo valga la pena parlare del mio desiderio di approfondire la storia che sto scrivendo, un romanzo che sicuramente m’impegnerà per qualche anno. Nel frattempo continuerò a scrivere sul mio blog e a parlare dei libri che amo su Instagram.

VG: E noi continueremo a seguire i tuoi passi. Buona vita, Francesca.

Si ringrazia l’editore per la copia omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Francesca Lizzio nasce a Catania il 22 Aprile del 1992, in “una notte buia e tempestosa”. Fermamente convinta che il meglio di un libro si trovi tra le righe e che valga anche per le persone. Data la sua passione per la biblioteconomia, l’archivistica e l’editoria, scrivere è stata una conseguenza naturale. Nel 2015 ha aperto un blog, “cuore di cactus”, dove si racconta a lettori sparsi per tutta l’Italia. Con Panesi Edizioni ha preso parte all’antologia Oltre i media – Raccontalo con un film o una canzone col racconto breve Giorni (2016) e ha pubblicato il suo romanzo d’esordio Fiore di cactus (2017). Nel 2021 esce Nonostante tutto.

Il suo blog è: https://cuoredicactus.wordpress.com/ e il suo account Instagram è francesca.lizzio.

Il sito internet della casa editrice è : www.panesiedizioni.it

Post in evidenza

“Una straordinaria solitudine” di Stefania Convalle, Edizioni Convalle.

“Ma un giorno il sole cominciò a bussare e cominciai a fare entrare qualche suo raggio caldo nella mia vita”. Citazione tratta dal libro.

Noi tutti siamo in fase di ricerca costante. L’uomo – per sua natura un animale in continuo cambiamento – ha un bisogno primordiale di cercare: se stesso, un miglioramento, un obiettivo più grande, un luogo in cui sentirsi sicuro. Nel suo cambiare, egli mantiene sempre e costantemente il bisogno di amare e di essere amato. È una necessità insostituibile, alla quale non può sottrarsi, perché se è vero che la parte pratica – quella che lo spinge al cambiamento citato poco fa – è più tecnica e razionale, la sfera emotiva sentimentale è la forma in cui converge il senso della vita. L’amore è il centro dell’esistenza ed è l’amore che cerchiamo, sempre, anche quando non vogliamo ammetterlo.

L’amore – questo sentimento tra i più affascinanti della nostra vita – è il tema di “Una straordinaria solitudine”, l’ultima opera di Stefania Convalle, pubblicata dalla Edizioni Convalle.

L’autrice, in questo romanzo, mantiene le caratteristiche stilistiche a lei care e che ormai sono una gradevole certezza per il lettore: narrazione in prima persona, personaggi che raccontano di sé e che si alternano come una danza, e una trama intrecciata secondo uno schema logico e strutturato in maniera esemplare perché permette al lettore di arrivare all’ultima parola insieme a un crescendo di emozioni, di palpitazioni, di pulsazioni.

In questo romanzo, i protagonisti che narrano le loro vite sono Sophie, Maryanne e Victor, e insieme a loro, si alza anche la voce di un luogo mistico: il Golfo dei Poeti. Il mare, le grotte, il vento, la neve, il profumo del basilico fresco e il cielo sono componenti che l’autrice ha reso imprescindibili. Gli ingredienti per immaginare un contesto romantico – da sogno – ci sarebbero tutti non fosse che il titolo – “Una straordinaria solitudine” – crei un contrasto evidente che lascia intendere ciò che, a volte, dimentichiamo. L’amore è un bisogno ma per soddisfare quel bisogno, l’uomo deve affrontare sfide, destini e, soprattutto, se stesso.

Non posso svelarvi molto di più, circa la trama. Il motivo è semplice: Stefania Convalle già dalle prime battute entra nel vivo, con precisione. Per prime battute intendo il senso letterale del temine: siamo nella prima pagina e Sophie, in sole cinque righe, dice molto di sé. Capirete come sia del tutto impossibile svelarvi oltre: sono centosessanta pagine concentrate di fatti, ricordi, emozioni, dolore (tanto, tantissimo), speranza, mancanze, distanze, viaggi oltreoceano, passato e presente, insegnamenti, un’altissima dose di commozione e tanto caffè.

Sì, avete letto bene, non è un errore. Il caffè è un alimento letterario che l’autrice ha usato nella sua forma più semplice ma efficace: quella che crea atmosfera e legami. Legami indissolubili, indelebili, che neanche il tempo può cancellare.

Siete curiosi di saperne di più?

Allora continuate a leggere perché ho invitato l’autrice a trascorrere un po’ di tempo qui e a rispondere a qualche domanda.

VG: Benvenuta, Stefania e grazie di aver accettato il mio invito.

SC: Grazie a te per l’ospitalità!

VG: Ho accennato l’alimento letterario che ho trovato perfetto per la tua opera. Ho contato più di dieci occasioni in cui i tuoi personaggi bevono caffè e in tutti gli scenari hai saputo ricreare l’atmosfera che ho citato poco fa: legami indissolubili. Mi piacerebbe un confronto con te, su questo punto.

SC: Ho un debole per il caffè! Se pensi che uno dei miei primi romanzi s’intitola “Una calda tazza di caffè americano”, già da allora era un elemento che ha fatto parte delle mie narrazioni. Bere un caffè insieme a qualcuno è da sempre un momento d’incontro, di condivisione. D’intimità.

VG: Ci ho girato intorno e forse qualche lettore più perspicace lo ha già capito. Devo ammettere che leggere questa tua opera mi ha commossa e non mi succedeva da tanto tempo. Non solo sul finale, ma anche nel mezzo. È successo anche a te, mentre scrivevi o immaginavi la trama? E, ancora, quanto ti coinvolge – a livello emotivo – l’ideazione dei tuoi personaggi e delle loro vicende?

SC: Come sai scrivo d’istinto, senza un progetto, ma costruendo la storia man mano. “Vivo” la storia insieme ai miei personaggi, condividendo con loro situazioni, vita ed emozioni. Soprattutto emozioni. Mi sono immedesimata sia in Sophie, sia in Victor, come anche in Maryanne, e ogni volta ho provato i loro sentimenti, persino la commozione. Scrivo così.

VG: Parliamo d’amore, un sentimento che hai esplorato più volte, nelle tue opere. Secondo te lo incontriamo o lo costruiamo? Intendo dire: è una questione di destino o è piuttosto un lavoro e un impegno quotidiano?

SC: L’amore è un sentimento che nasce dal cuore, quindi – per me – non può essere qualcosa di costruito. Ce l’abbiamo dentro oppure no. E se l’amore è in noi, allora riusciamo a farlo vivere nel rapporto a due, ma anche nel rapporto con gli altri. Ma anche nei confronti di ciò che ci circonda, che sia la Natura, gli animali, il mondo nella sua interezza. Ma l’amore, da solo, non basta. Richiede impegno, è vero, un impegno quotidiano, specialmente se si parla di amore di coppia; l’amore è anche accettare l’altro, pregi e difetti, e amarlo sempre e comunque.

VG: Chi è il tuo primo lettore?

SC: Quando inizio un romanzo, faccio leggere i capitoli work in progress ad alcune persone che però non sono sempre le stesse, decido al momento. Però c’è una mia carissima amica da tanti anni, Emma Barberis, poetessa e autrice di short story, alla quale invio sempre quello che scrivo. Quindi direi lei, per rispondere alla tua domanda.

VG: Qual è la prima cosa che fai, quando hai scritto la parola “fine”?

SC: Brindo!

VG: Da dove trai ispirazione per le tue opere?

SC: Dalla musica, dalle emozioni che scatena in me, dalla vita che mi circonda, dall’istinto che diventa – a volte – visionario.

VG: Vorrei farti una domanda un po’ provocatoria… Quando ti chiedono che lavoro fai rispondi autore o editore?

SC: Rispondo: casalinga! A parte gli scherzi, il mio lavoro è fare l’editrice. La scrittura è una forma d’arte e quindi non può, a mio giudizio, essere considerato un lavoro, al di là che si guadagni un euro o un milione. L’artista è mosso dalla passione, dal talento che decide di esprimere nella sua opera. Non è un lavoro.

VG: Rendici partecipi, se puoi, dei tuoi prossimi progetti lavorativi.

SC: I progetti lavorativi sono tanti, la mia mente sforna idee alla velocità della luce 😉 ma devo fare i conti col tempo e quindi realizzo quello che posso. In concreto, al momento attuale, sono molto concentrata sulla partecipazione di Edizione Convalle al Salone del libro di Torino che avrà luogo in Maggio. Poi si vedrà. Un passo alla volta, come si suol dire. Per quanto riguarda la mia scrittura, ho in lavorazione un’opera dove raccolgo aforismi estrapolati dalle mie tante opere. Ma nel frattempo, magari dopo il Salone, comincerò un nuovo romanzo, chissà… Scrivere è la mia oasi e quindi lo faccio appena possibile.

VG: E noi seguiremo i tuoi “passi”.

Si ringrazia l’Editore per il file lettura omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Stefania Convalle ha al suo attivo numerose pubblicazioni: romanzi, poesie, opere sperimentali a più mani e un manuale di scrittura. Tra i riconoscimenti più importanti, il Premio Giovani “Microeditoria di qualità”: nel 2017 con il romanzo “Dipende da dove vuoi andare” e nel 2018 con “Il silenzio addosso”; entrambe le opere sono state presentate nel programma “Milleeunlibro” di Rai Uno. Scrittrice, organizzatrice di eventi culturali, ha fondato il Premio Letterario Dentro l’amore. Writer Coach, Talent Scout, Stefania è anche editrice dal 2017, anno di fondazione della Edizioni Convalle, una casa editrice col cuore d’autore, come ama definirla.

Post in evidenza

“Il nome di mio padre – Una nuova indagine di Debora Nardi” di Elena Andreotti – Boodinterviste.

“Quella faccenda le appariva intricata e sfuggente. Cercava di afferrare i suoi stessi pensieri che, nel momento in cui li formulava, svanivano.” Citazione tratta dal libro.

Sarà successo anche a voi e a me capita spesso, molto più spesso di quanto vorrei: le intuizioni, qualche volta, fuggono via, lontano, in un angolo remoto della memoria o chissà dove. La buona abitudine, soprattutto per chi scrive, dovrebbe essere quella di avere sempre a portata di mano un taccuino per appuntare, ma non sempre è facile, non sempre è possibile. A volte i pensieri appaiono come un fulmine rapido, come un lampo che illumina e si spegne con la fretta di un battito di ciglia e il dopo è spesso il tempo del dubbio, del vuoto.

Tuttavia, quando quel fulmine cognitivo appare nella mente di un personaggio come Debora Nardi – la ormai consolidata consulente in macabre scoperte create dall’abile Elena Andreotti – difficilmente svanisce nell’ombra. L’intuizione e l’ingranaggio del pensiero, in lei, si mettono in moto e questo le permette di giungere sempre a risultati, non immediati, ma certi.

“Il nome di mio padre” è il titolo dell’opera che tratta l’ultima avventura che vede protagonista questa eclettica donna e che, stavolta, si trova ad affrontare un delitto diverso dal solito, più legato alla sfera familiare – come recita il titolo – e più intimo, forse anche più toccante, per certi versi.

Siamo a Monte Alto, nella campagna laziale, e Giovanni Belli – un uomo conosciuto per le sue numerose avventure amorose  –  perde la vita in circostanze misteriose. Sul suo corpo martoriato vengono ritrovate alcune fotografie e questo aspetto genera ulteriori dubbi e spinge le indagini verso un terreno delicato che l’autrice ha elaborato con la sua consueta precisione.

Debora Nardi, in questa veste consolidata di consulente ufficiale delle indagini, non ha perso la sua personalità e questo è una ulteriore certezza, per il lettore. La troviamo in compagnia di Flora, l’amica-vicina di casa, in un’analisi dei fatti accaduti mentre controllano la crescita di zucchine e pomodori nell’orto oppure a tavola, davanti a una fumante lasagna di radicchio e provola. La ritroviamo, ancora, dedita ad accudire il cagnolino Lina, e non soffrire la solitudine di casa data da marito e figlia assenti per ragioni lavorative; avvertiamo anche la sua forza psicologica nell’affrontare una situazione intricata ma, per lei sempre più intrigante, in un crescendo di fatti e analisi che spingono la lettura fino all’ultimo capitolo e oltre, nelle note finali dell’autrice che, ho trovato, particolarmente dettagliate, frutto di uno studio accurato.

Per curiosare ancora più a fondo, ho invitato l’autrice a rispondere a qualche domanda.

VG: Buongiorno Elena, grazie di aver accettato il mio invito.

EA: Buongiorno a te.

VG: Come già accaduto per “Il delitto va servito freddo” ritroviamo anche ne “Il nome di mio padre” molti dei protagonisti delle tue opere. Oltre a Debora, infatti, appare anche Filippo Maria Vanzitelli. Restiamo anche nelle ambientazioni alle quali ci hai abituato: Monte Alto e il Castello con annesso campo di golf. A chi ti sei ispirata, se possiamo saperlo, per la creazione di due personaggi così diversi tra loro? 

EA: Per Debora, come ho dichiarato nel primo libro in modo palese, nasce dalla mia ammirazione per il personaggio televisivo di Jessica Fletcher dell’arcinota serie televisiva “La signora in giallo”; Fil Vanz è un personaggio di assoluta fantasia, emerso nel mio immaginario, durante la revisione di “Quando il ciliegio sfiorirà”. Come ben sai, le revisioni sono noiosissime, pertanto, la mia mente comincia a fantasticare su altro. Quindi, ho immaginato un hacker abbandonato dalla moglie a causa delle sue passioni. La location doveva essere sontuosa, perché i guadagni di Fil lo permettevano. Ho pensato al castello di Laura Biagiotti che non è molto lontano da casa mia, come pure i luoghi di Debora sono ispirati a dove vivo.

VG: Circa a metà delle indagini, Debora ammette che vorrebbe una soluzione immediata ma, invece, è obbligata ad attendere i tempi tecnici. Questo passaggio mi ha colpito perché ho sempre pensato che nelle indagini, invece, è necessario battere il tempo e anticipare le mosse. Quali sono, secondo te e anche a fronte dei tuoi studi, le attitudini necessarie per svolgere un’indagine delicata come quella che hai narrato?

EA: Credo che un buon investigatore debba essere dotato di grande empatia e debba essere un profondo conoscitore della natura umana. Inoltre non può mancare di una buona capacità deduttiva e anche di un pizzico di fantasia.

VG: Sempre Debora porta alla luce un altro concetto che ho trovato molto interessante quando, immersa nei suoi pensieri, si rende conto che a volte “con gli esseri umani neanche le parole bastano”. Per uno scrittore, invece, le parole contano, e parecchio. Quanto tempo dedichi alla scrittura, nell’arco di una giornata? Anche a te capita di dover trovare la parola esatta e di faticare, nel riuscirci?

EA: Io scrivo principalmente di mattina, dalle 9 alle 11. Sì, a volte le parole non vengono, ma non ricorro al vocabolario dei sinonimi e contrari, quanto piuttosto cerco di forzare la mente a cercare la parola, perché un buon vocabolario fa parte della preparazione di chi ha frequentato il liceo classico come me.

VG: L’amicizia è un tema molto ricorrente, in questa e nelle tue precedenti opere. Debora e Flora hanno un rapporto semplice ma di grande rilevanza e, sempre Debora, con il comandante della Polizia ha un rapporto a tratti scontroso ma vero e, a momenti, anche divertente. Sono rapporti che alleggeriscono la narrazione e che creano buone emozioni, nella lettura globale. Quanto è importante, secondo te, nella narrazione gialla bilanciare il bene e il male?

EA: Credo che in un giallo classico il bene debba sempre prevalere e anche durante la narrazione deve emergere che il male è un’eccezione. Non per niente il comportamento criminale viene considerato una devianza. Per quanto mi riguarda mi sento naturalmente portata per il giallo soft.

VG: Cosa farebbe Debora Nardi se non ci fossero delitti per un periodo medio/lungo?

EA: Debora è anche impegnata nella comunità e scrive gialli in cui romanza le storie che vive personalmente; quindi, da fare non le manca. Certo, ogni tanto, soffre per non poter essere sul campo.

VG: So che ami molto la fotografia. Cosa rappresenta, per te, l’arte visuale e che ruolo ha – se ce l’ha – nella stesura di un libro?

EA: Quando scrivo e l’ambientazione è lontana dalla possibilità di un mio sopralluogo, uso molto Google maps e Street View. Se nella storia si parla di un ristorante, cerco le immagini del locale e consulto il menu.

Per i titoli e alcuni particolari della storia, in qualche caso hanno giocato le mie stesse foto, che poi compaiono nella copertina: parlo di “Di porpora vestita”, in cui compare un garofanetto del mio giardino, e “Quando il ciliegio sfiorirà”, in cui compaiono i fiori del mio ciliegio. Le foto hanno influenzato notevolmente la storia.

VG: Raccontaci, se puoi, il tuo prossimo progetto anche non letterario.

EA: Ho due romanzi rimasti in sospeso, perché ho cominciato a realizzare audio del mio primo romanzo su Spreaker, un luogo virtuale per podcast.

VG: Hai uno spazio a disposizione, per comunicare con i lettori. Cosa vorresti che sapessero di te?

EA: Quando scrivo i miei gialli io mi diverto e vorrei che anche loro percepissero questo e traessero lo stesso divertimento dalla lettura. C’è un che di implicito e non detto ‒ e tuttavia molto presente ‒, in tutti i miei scritti, che parla di leggerezza e di buoni sentimenti e che vorrei non andasse perduto.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio e per la foto di copertina.

Nota biografica dell’autrice:

Elena Andreotti è Sociologa (Laurea alla Sapienza di Roma) con Perfezionamento avanzato in Bioetica (diploma conseguito presso la Facoltà di Medicina e chirurgia del policlinico Gemelli di Roma). Esperienza lavorativa ventennale presso la P.A. con mansioni amministrative. Per una decina di anni si è occupata di informatica e sistemi informativi, acquisendo conoscenze di programmazione, analisi e progettazione dei software gestionali, curando anche la formazione dei colleghi sull’informatica di base e la cultura dei sistemi informativi. Ha collaborato con un periodico locale per circa dieci anni per la rubrica di bioetica. Attiva nel volontariato si è occupata della formazione dei volontari. Nel 2017 apre un blog su Wordpres: (https://nonsolocampagna.wordpress.com/)

a cui segue il blog https://elenaandreottiscrittrice.wordpress.com/

Sul primo blog pubblica a puntate i tre racconti che poi confluiranno nel primo giallo, Vorrei essere Jessica Fletcher, pubblicato prima sulla piattaforma StreetLib ‒ con distribuzione a tutte le librerie online ‒, e poi in esclusiva per Amazon. All’attivo quattro collane di libri, tre sono di gialli. (Pubblicati su Amazon, dove sono consultabili nella Pagina autore).

Post in evidenza

“Ballando nel silenzio” di Darinka Montico, AltreVoci Edizioni #boodinterviste.

Avrei voglia di abbracciarmi”. Citazione tratta dal libro.

Per onestà verso i lettori, ci tengo a precisare che ho scritto questo articolo – premessa e domande – il giorno in cui il nostro mondo è stato travolto da un’ondata di violenza che credevamo appartenesse ai nostri libri di storia. Per una serie di coincidenze esce oggi, e proprio per non intaccare le emozioni che, si sa, fanno parte di questo blog, ho deciso di lasciarlo così, integrale e naturale.

Vorrei dirvi che scrivo questo articolo con la solita voglia e determinazione, con la consueta energia e il consolidato impegno, ma mentirei. Ho pensato, riflettuto, scritto e riscritto per giorni, prima di convincermi che potessi ancora farlo. Che potessi ancora parlare di libri, intendo. Il motivo è il mondo al rovescio nel quale stiamo vivendo e che mi ha fatto perdere gusto. Lo ammetto perché la sincerità mi piace sempre, anche quando è un po’ scomoda.

Dunque, non ero certa di continuare a pubblicare articoli e non lo sono ancora del tutto, ma dopo una lunga riflessione sul motivo che, finora, mi ha spinto a scrivere, ho capito che i libri sono una fonte di energia, sono simboli, e per qualcuno sono un appiglio, una comfort zone. Ho capito anche che divulgare bellezza è sempre un dovere, e che adesso, questo dovere, è il privilegio di chi è libero e pertanto è diventato un obbligo verso il Mondo. Il mondo della bellezza, della parola, dei pensieri, della speranza e dei sentimenti. Sentimenti veri, anche se scritti. Insomma, voglio provare a continuare e spero che i lettori apprezzeranno il mio intento.

La lunga premessa introduce il libro di cui vi voglio parlare: “Ballando nel silenzio” di Darinka Montico, pubblicato da AltreVoci.

Vi confesso che ho sentito, da subito, una forza attrattiva straordinaria nei confronti di questo libro autobiografico che è stato scritto durante il primo lockdown, nel 2020. Sarà anche perché entrambe, io e l’autrice, siamo entrate in una nuova dimensione, in quel lontano marzo: lei a Bali, io in cucina. Inoltre, entrambe abbiamo sfidato le nostre ombre e abbiamo scelto di ascoltarci, di usare quel tempo sospeso per provare a comprenderci meglio. Insomma, ho iniziato la lettura in preda ai migliori auspici.

Già dalle prime battute, ho avvertito una vena creativa e autentica che non mi ha mai abbandonato per tutta la lettura dell’opera. L’autrice, infatti, si presenta subito al lettore, quasi senza veste, in un intimo racconto di sé, quando decide di restare a Bali e di accettare l’incertezza di quel momento. La narrazione in forma libera ricorda un diario: ci sono le avventure, gli incontri, i dolori che vengono a galla insieme ai dubbi, i ricordi, l’infanzia e il rapporto controverso con i genitori, gli incontri con i guru che sembrano avere una risposta per ogni perplessità, il rapporto con i partner e con l’Amore, e, ultimo ma non per ultimo, il rapporto col cibo. Lei scrive: “Credo che mangiare sia un’arte a cui vadano dedicati tutto il tempo e la passione necessaria, sia nel combinare ogni forchettata con gli ingredienti del piatto, che nel gustarli in bocca dimostrando il piacere che meritano”. A me pare bellissimo, ancor di più adesso mentre trascrivo queste parole, e continuo a sentire il vento fresco della libertà che una donna esprime, quando ammette di amare il cibo. 

In generale, la narrazione onesta (ma anche ironica, altro plus dell’opera) mi ha condotto nei passaggi che servono, quelli giudicati indispensabili per arrivare al centro, alla soluzione, nel punto esatto in cui dovremmo arrivare, tutti noi: volersi bene. Un concetto cardine, sul quale ruota l’intera opera e che è trattato con sincerità, semplicità e simpatia.

Per accompagnarvi in alcuni dei più significativi passaggi di “Ballando nel silenzio” ho deciso coinvolgere l’autrice che ha accolto il mio invito a raccontarci qualcosa di sé e della sua opera.

VG: Buongiorno Darinka. Grazie di aver accettato il mio invito.

DM: Piacere mio, e scusa il ritardo nel rispondere, sono parecchio impegnata ultimamente e soprattutto non avevo letto l’introduzione che mi avrebbe spinto a risondere prima, MEA CULPA.

VG: Hai a disposizione uno spazio per raccontare chi sei. Siamo molto curiosi….

DM:Adoro Ballare sull’asfalto bagnato su una strada vuota in mezzo alla notte. Accendere candele in chiesa senza lasciare l’offerta. Scattare fotografie. Guardarle dopo tanto tempo. La semiotica. La psicologia e I sogni. L’Arte e gli Artisti. La Politica ma non i politici. Il Cinema. I Film Indipendenti e I Film dell’Orrore. L’odore del Cinema. La coda per comprare i popcorn. I trailer prima dei film. Mano nella Mano. Condividere una lacrima con uno sconosciuto. Il Silenzio. Il rumore della pioggia sui tetti. L’odore dei prati dopo la pioggia.  Nuotare coi pesci, ballare coi pesci. Il fuoco, Giocare col fuoco. l’ironia, il mio compleanno, i pavimenti di legno, il lago d’inverno, Il Blues, La Sicilia, I treni. Fare un picnic a letto, fare l’amore tutto il giorno interrompendo solo per fare un pic nic a letto. Una casa sull’albero. Dylan Dog. Le Sorprese. Le cattedrali gotiche. Le Polaroid. I telefoni che sono solo telefoni. I vestiti d’epoca. Le feste pazze. Cucinare per i miei amici. Chiacchiere e vino, pizza e birra, edamame e sakè. Ridere. Il rumore dei bisbigli. Il rumore delle pagine sfogliate. L’odore di un vecchio libro. Perdermi in una città che non conosco. Uno sguardo sexy al passeggero del treno che va nella direzione opposta. Non sapere. Gli animali, qualche persona. La mia rivoluzione interiore è sbocciata un paio di anni fa quando ho capito che continuare a dedicarmi a fare cose che non mi piacevano era una perdita di tempo. Parlare di me non mi piace ma parlando di quello che mi piace parlo di me…

VG: Partiamo dalla pizza, un “alimento narrativo” che nel tuo libro è molto esplicativo. Conosci Roberta, infatti, proprio seduta davanti a una pizza, a Bali. Roberta diventa una figura importante, per te. Ci daresti una tua definizione di amicizia?

DM: In questo periodo così particolare sono stata costretta a ridefinirla, ho perso diversi amici, non sono morti, semplicemente non hanno più voluto essere miei amici perché abbiamo opinioni diverse su certi temi, particolarmente polarizzanti. Quindi ti so certamente dire quello che l’amicizia non è, non è il rapporto con qualcuno che non ti accetta semplicemente per una differenza di opinioni. Personalmente io mi annoio a stare con persone che mi danno sempre ragione, mi chiedo come sia possibile, le differenze aiutano a crescere, le visioni diverse aiutano ad allargarci la prospettiva. Forse l’amicizia ha più a che fare con l’amore incondizionato per un altro essere che istintivamente ci attrae, e meno con le affinità che ci accomunano, considerando che crescendo le nostre idee continueranno a maturare e cambiare, ma certi, i veri amici, sono sempre .

VG: Ci racconteresti l’esperienza culinaria più originale che hai vissuto?

DM: Occhio di capra sul lago Issikul, in Asia centrale. Camminavo davanti a un pic nic sul prato, vicino allo yurta di chi mi ospitava e dei gentilissimi locali mi hanno offerto ciò che per loro immagino fosse una prelibatezza. (o forse mi stavano prendendo in giro e poi si sono ammazzati di risate dietro alle mie spalle, questo non lo saprò mai) e per non essere scortese, l’ho deglutito in un colpo, non è stata una bella sensazione, ma forse ho aperto il terzo occhio nel mio stomaco. 

VG: Secondo te, siamo artefici o subiamo il nostro destino?

DM: Entrambi, nel senso, è possibile che sia già tutto scritto da inizio a fine, ma tanto non lo sapremo mai, e l’idea di esserne artefici è certamente più stimolante. Quindi io vivo credendo di esserlo, ma spesso con la coda dell’occhio scorgo Dio che mi fa l’occhiolino.

VG: Più volte hai usato, per descriverti, la definizione “scettica interiore” (una definizione che ho trovato geniale). Tra Reiki, Yoga, Nyepi intropsettivo, Breathwork, Lightworker, sessioni di meditazioni e guarigioni cosa scegli oggi e perché. Raccontaci anche se nel frattempo hai sperimentato altre discipline simili.

DM: Kirtan lo accenno nel libro, oggi ho mi sono comprata un armonio e sto imparando a suonarlo, mi sto approcciando all’apnea che è una pratica che trovo meditativa e naturale estensione del breath work, pratico digiuno sempre più spesso, e sto andando a classi di danza tradizionale balinese.

VG: Siamo entrambe sostenitrici dello studio in età adulta. Stai studiando, attualmente? Oppure hai in programma di compiere studi nell’imminente futuro?

DM: Sto studiando più che mai, negli ultimi due anni più che in tutta la mia vita, nulla a livello formale, alla fine laureandomi, ho visto che l’unico mio collega che davvero ha fatto una grande e meritata carriera nell’ambito che avevamo studiato è anche l’unico che mollò al secondo anno, non sono più alla ricerca di pezzi di carta, leggo e ascolto podcast sugli argomenti che m’interessano, la vita è la scuola e io perennemente studente, oggi più appassionata che mai, tengo alla mia libertà e la conoscenza è fondamentale per individuare le tecniche di manipolazione in atto da parte di governi e mass media o influencers al soldo dei governi.

VG: Come definisci “casa”, oggi?

DM: Il luogo in cui mi sento più a mio agio. Prima erano posti, poi è stata la strada, ora è dentro di me.

VG: Sei una viaggiatrice che ha affrontato molte sfide, alcune estreme. Non hai mai avuto paura di non riuscire a raggiungere la meta finale?

DM: In tutta onestà no. C’è sempre un modo, fortunatamente mi viene spontaneo utilizzare i “come” al posto dei “ma”. Come è realizzabile? Non “ma è realizzabile” se non trovo una risposta al come non intraprendo il progetto, se la trovo, poi il resto si tratta solo di avere la determinazione necessaria per portarlo al termine. E avendolo scelto io è perché credo nelle motivazioni, credo abbia un valore, abbandonarlo mi suona come tradimento.

VG: Citazione dal libro : “Il guru suggerisce l’importanza di non focalizzarsi sui problemi, perché questo non farebbe altro che renderli più grandi e crearne di nuovi. Al contrario, pensare alle possibili soluzioni renderà positivo il nostro atteggiamento e permetterà loro di venire a galla”. Tutto questo è un insegnamento preziosissimo, che dovremmo acquisire. Lo senti tuo? E, domanda ancora più difficile, riesci ad applicarlo, nella vita quotidiana?

DM: Ogni tanto quando gli ostacoli appaiono grandi ce lo dimentichiamo, anch’io lo dimentico, infatti senza scherzare me lo voglio tatuare sulla mano come promemoria. Cambiare il mindset, cambia il nostro approccio alla situazione, e ció che sembra un problema, si trasforma in una lezione. Se non impariamo a risolverle si ripresenteranno continuamente sul nostro cammino, con diverse facce, in diverse situazioni, invece se capiamo come gestire l’ostacolo, la prossima volta non sarà più tale, sarà una semplice situazione. 

VG: Ultima domanda. Ci piacerebbe conoscere i tuoi progetti per il futuro, letterario e non.

DM: Anche a me.

Allora ti offro uno spazio qui, per quando avrai voglia di raccontarci qualche tuo nuovo traguardo.

Si ringrazia lo staff della AltreVoci Edizioni per la copia lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Darinka Montico è nata a Verbania nel 1980. È viaggiatrice, scrittrice, fotografa e video maker. Dopo una lunga permanenza all’estero, in cui svolge le professioni più disparate, torna in Italia nel 2014 per dedicarsi completamente alle sue passioni. Ha pubblicato nel 2015 Walkaboutitalia, il diario del suo cammino di sette mesi dalla Sicilia al Piemonte senza soldi in tasca, accompagnata dall’ospitalità di sconosciuti e dai loro sogni. Del 2016 è Mondonauta, il racconto di un altro lungo viaggio dal Laos alla Scandinavia via terra. Dopo aver attraversato l’Oceano Atlantico in barca a vela e le due Americhe in bicicletta, resta bloccata a Bali dalla pandemia del 2020. Da questa esperienza nasce Ballando nel silenzio, il più introspettivo dei suoi racconti.

Post in evidenza

“Tutta la vita davanti – Quando la sciura Marpol era Nora” di Miriam Donati e Anna Maria Castoldi, Scatole Parlanti. #boodinterviste.

“A chi si è battuto e continua a battersi per la parità politica, economica e sociale tra donne e uomini per eliminare tutte le discriminazioni”. Dedica tratta dal libro.

Non sono solita iniziare i miei articoli citando la dedica che apre un’opera perché ho sempre pensato che questa sezione dei libri è intima, quasi una porta sul cuore dell’autore che ogni lettore deve incontrare a suo modo e interpretare secondo l’emozione del momento. Oggi, però, ho deciso di fare un’eccezione perché la frase che ho riportato ha un sapore nuovo, intenso, che ha scavato in profondità, che mi ha fatto riflettere sul peso delle nostre scelte e che mi ha accompagnato per tutta la durata della lettura di “Tutta la vita davanti – Quando la sciura Marpol era Nora” l’ultima fatica letteraria di Miriam Donati e Anna Maria Castoldi, edito da Scatole Parlanti.

Abbiamo già conosciuto le autrici e Onorina (la sciura Marpol) è un’icona, un personaggio che, una volta incontrato, difficilmente ti dimentichi. Ora, in quest’opera e come anticipato dal titolo, abbiamo il piacere di conoscere Onorina – Nora – da giovane, quando il suo futuro era ancora tutto da scrivere.

Siamo negli anni ’60, a Maranese, un paese immaginario alle porte di Milano e Nora sta per sperimentare la sua prima indagine. Non solo. Il mondo di Nora è in continuo movimento: ci sono gli amici, c’è l’amore, lo studio, il lavoro, la famiglia; c’è la delusione, il conflitto di essere donna, la voglia di affermarsi e di far sentire la propria voce.

L’atmosfera è, ancora una volta, quella alla quale le autrici ci hanno abituato: una dolce tensione densa di fatti da scoprire ma arricchita, questa volta, dall’amore, dalle speranze e dei dubbi che la giovane Nora vive con passione.

Ora, per meglio addentrarci nell’opera, passo la parola alle autrici.

VG: Buongiorno Anna Maria, buongiorno Miriam. Bentornate!

Buongiorno Valeria, ben ritrovata! Grazie per questa nuova intervista.

VG: In queste settimane, mentre leggevo la vostra opera, ho avuto modo di riflettere sul significato della libertà, un significato che sembra sempre più offuscato dagli eventi che si stanno verificando. Cos’è, per voi, la libertà?

Domanda pertinente proprio per gli eventi cui stiamo assistendo. Se il nostro libro ti ha suscitato una riflessione così importante, riteniamo di aver raggiunto un piccolo obbiettivo. Scrivendo questo prequel abbiamo avuto modo di ripensare al tema della libertà insieme a Nora, la sciura Marpol ventenne nel 1964, che ha dovuto fare i conti con le costrizioni, esterne e interne, che restringono lo spazio di libertà individuale.  Tutti noi in gioventù abbiamo vissuto l’anelito alla libertà e il peso delle catene che la limitano perché la libertà é uno spazio interdipendente da quello delle persone che ci stanno intorno e varia a seconda dell’età, del genere, delle possibilità economiche, sociali, del posto dove si vive etc. Ancor di più se si è donne. Ci tenevamo a raccontare seppur in un romanzo giallo quanto difficili, in termini di autodeterminazione e parità, siano state le conquiste da parte delle donne e quanto siano, a volte, date per scontate o rimesse in discussione.

VG: Ancora una volta, ho percepito una gradevole armonia e una completa sinergia della tecnica di scrittura. Come ci riuscite? Vi dividete i compiti, per esempio una mano si occupa di dialoghi e l’altra delle descrizioni? Siamo molto curiosi, raccontateci – ma non svelateci – i vostri segreti…

Ciò che tu chiami sinergia per noi è scrittura compenetrata, così definiamo la nostra scrittura di coppia, cioè il risultato finale di un lavoro prima di tutto su noi stesse, nel senso che alla base c’è la consapevolezza della nostra unicità. Tale consapevolezza rende possibile il fluire della scrittura, senza paura di essere di più o di meno dell’altra, mettendo al primo posto la storia che andiamo raccontando. Per questo non ci dividiamo i compiti. Descrizioni, dialoghi e caratterizzazioni dei personaggi sono il frutto della somma, della miscela e della sottrazione delle due scritture che diventano una terza originale scrittura.

VG: Nora, al lavoro, consuma la sua “schiscètta”, durante la pausa pranzo. Quest’immagine mi fa tornare alla mente un pranzo semplice, strettamente legato alla cucina di casa. Racconta anche molto della personalità della vostra protagonista che io definisco autentica. Qualche altro aggettivo per descrivere Nora?

Attenta, curiosa, perspicace, dotata di logica divergente che la fa andare oltre i luoghi comuni, le apparenze, ma anche giovane, e la giovinezza può essere pesante da portare. Come infatti le succede, perché ancora non ha deciso cosa fare della propria vita. È divisa tra Maranese e Milano, tra lavoro e studio, tra due uomini e ha persino un doppio nome. É in un momento difficile, è incerta su se stessa e sulle decisioni da prendere e un delitto avvenuto in Bovisa a Milano, dove lavora, che ha come vittima una giovane donna, moglie e madre, che le malelingue ritengono “che in qualche modo se la sia cercata… sicuramente aveva un amante” la stimola a indagare per difendere l’onestà della vittima: Lo fa in modo inconscio perché lei stessa ha bisogno di capire cosa può fare una donna. Indagare le serve per fare chiarezza sui propri desideri. Ma non è sola: c’è Mary l’amica e collega che la aiuta negli incontri con i vicini della vittima, il maresciallo che la incita a pensare con la propria testa, la vicedirettrice della scuola serale che frequenta che la fa riflettere sul ruolo della donna, la nonna che la tiene ancorata ai valori familiari, ci sono gli amici del treno con i quali discute i fatti del giorno e infine c’è l’amore, per due uomini molto diversi, che la confonde.

VG: Avete raccontato la condizione della donna, in un periodo storico di profonda transizione. A che punto siamo, secondo voi, nel 2022? Domanda non semplice, me ne rendo conto…

Rifacendoci alla risposta data alla prima domanda, purtroppo, ci sono nel mondo situazioni di arretratezza sociale e culturale che scontano soprattutto le donne. Il mondo occidentale vive di contraddizioni. Pur essendo considerato evoluto, permette che ci siano ancora sia situazioni di disparità economica e retributiva (il famoso tetto di cristallo continua a restare intatto), sia arretratezze culturali con rigurgiti di mentalità sessiste e patriarcali che cercano di far tornare le donne nei soli e unici ruoli tradizionali di mogli e madri. Devono essere le donne a non abbassare la guardia sui diritti acquisiti e cogliere ogni occasione e opportunità per ribadire la loro autodeterminazione, incoraggiando anche nella vita quotidiana, un cambio di mentalità nei propri compagni e favorendo nell’educazione dei figli il rispetto dei generi senza discriminazioni e pregiudizi. C’è ancora molto da fare, la strada purtroppo è ancora in salita.  

VG: Passato, presente o futuro. Cosa conta di più nella vita e nella stesura di un’opera narrativa?

Nella vita hanno la medesima importanza secondo noi. Il passato non ci abbandona mai e viviamo il presente che è tale per il vissuto che ci ha formato, ma senza progetti, o meglio, senza sogni per il futuro non saremmo completi. Nella scrittura dei nostri libri il passato è sempre una parte importante che influisce sugli avvenimenti del presente, non tanto e solo perché la storia si ripete, perché ormai abbiamo imparato che non ne teniamo conto, quanto perché fornisce gli elementi per analizzare la realtà che ci circonda e l’eventuale chiave per capire cosa ci potrà accadere. Anche in questo ultimo libro, il passato ha un peso nel determinare il presente dei personaggi e nello spingerli verso scelte che decideranno il loro futuro, esattamente come succede nella vita reale. E come dice la Szymborska “…Ogni inizio infatti è solo un seguito, e il libro degli eventi è sempre aperto a metà (Amore a prima vista- cit. dall’esergo)

VG: Orario e luogo migliore per scrivere. Esistono davvero?

Chi siamo noi per sfatare leggende che scrittori famosi hanno divulgato? Ogni autore ha le proprie abitudini, a volte, addirittura al limite della superstizione o scaramantiche. Quello che possiamo dire è che noi approfittiamo dei momenti liberi perché la vita viene prima di tutto, perché senza la vita non c’è scrittura anche se quando un’idea ti si ficca in testa non ti lascia tregua: non c’è giorno e non c’è notte per lei finché si deposita sulla carta tradotta in parole. L’unica regola è cercare di scrivere tutti i giorni, con qualche eccezione: per entrambe le vacanze. Ecco che emerge ancora la nostra diversità. Infatti l’una scrive appena sveglia, quasi che nel periodo di relax siano le notti a fornire gli spunti per la scrittura del mattino. Per l’altra le vacanze equivalgono a viaggiare e quindi ha tempo solo di prendere appunti.

VG: Il tema della diversità è stato sfiorato spesso. Onorina, riferendosi all’amicizia tra suo padre e un amico di famiglia, resta ammirata dalla stima che fa da padrone alla loro amicizia anche se entrambi hanno pensieri differenti. Quanto è importante, secondo voi, veicolare messaggi di questa portata nei vostri libri?

La nostra percezione è che i messaggi si nascondano a nostra insaputa nel testo, non l’abbiamo mai deciso a priori, è probabile che l’inconscio si prenda delle libertà. Comunque è bello scoprirli da segnalazioni di lettori. Secondo noi alla base di ogni sentimento deve esserci il rispetto, se manca quello non ci sono le basi per un sincero sentimento, che sia amicizia o amore. Facile essere amici quando si è uguali in tutto, valori, preferenze, modo di vivere, più difficile quando l’amico è l’esatto nostro opposto e le sue scelte non sono condivisibili. Il bello dell’amicizia è proprio non giudicare e rispettarle. Ed è quello che succede quando Nora rivela la sua situazione sentimentale all’amica Mary che si dimostra solidale e non se la prende per il ritardo nella confidenza: ci sono segreti che è difficile condividere e ognuno ha i propri tempi.

VG: Un altro fattore che emerge è l’importanza di appartenere a una comunità che evolve ma che, in un certo senso, protegge. Quanto contano, gli Altri, nelle nostre scelte?

Nessun uomo è un’isola dice John Donne ed è vero. Senza gli altri con cui confrontarci o specchiarci saremmo un infinito soliloquio con noi stessi.  E questo assunto è chiaramente percepibile in ogni nostro libro: nel primo Delitti nell’orto attorno alla protagonista c’è il coro del paese, nel secondo Fughe e ritorni, il gruppo del commissariato e gli amici artisti, in quest’ultimo Onorina/Nora è circondata da diversi gruppi come succede sempre in gioventù quando gli orizzonti si allargano il più possibile perché la vitalità del periodo ha bisogno di non trovare dei limiti per consolidarsi in un nucleo identitario.

VG: Vi lascio uno spazio aperto, per comunicare con i nostri lettori. Graditi, come sempre e per puro suggerimento, sono i progetti per il futuro…

Cari lettori ci fa sempre piacere avere un vostro riscontro. Sappiate che quest’ultimo libro è nato proprio da una vostra domanda. Infatti nelle presentazioni dei primi due libri più volte ci è stato chiesto come fosse la sciura Marpol da giovane e ciò ha stimolato la nostra immaginazione. Non sapevamo a cosa saremmo andate incontro! Mesi di ricerche per entrare nell’atmosfera di quegli anni di fervore: i mitici anni sessanta, la crescita economica e sociale, il sessantotto all’orizzonte. Poi la difficoltà di destrutturare un personaggio per arrivare al nucleo primigenio dal quale nascono le caratteristiche di Onorina adulta con il rischio di snaturare il personaggio. Siamo comunque contente di aver raccolto il suggerimento e speriamo di essere riuscite a trasmettere l’entusiasmo di quegli anni che ci ha contagiato. Per quanto riguarda i progetti… abbiamo Tutta la vita davanti, chissà cosa ci riserverà il futuro? Approfittiamo di questo spazio per porre adesso una domanda a te che scrivi e hai pubblicato un libro: com’è stare dall’altra parte?

E io rispondo a voi, care autrici, con molto piacere. Stare da questa parte è una sfida. Entrare ogni volta nelle pieghe più intime delle pagine e cercare di portare alla luce ciò che si può dire e tener nascosto ciò che il lettore deve scoprire da sé è, ogni volta, come iniziare daccapo, una dolce scoperta che mi riempie di gioia. Scrivere e leggere. Leggere e scrivere. Due verbi che nascondono, di fatto, lo stesso grande amore: quello verso i libri.

Vorrei concludere questo articolo con un’ulteriore nota. Avrete notato che non è stata indicata la sigla accanto al nome, accanto a chi, cioè, ha scritto la risposta e nemmeno la sottoscritta ha saputo da quale mano è uscito il testo. Ho apprezzato moltissimo, questo gesto, perché è un’ulteriore conferma di ciò che la scrittura compenetrata (prendo in prestito la citazione delle autrici) fa emergere: un valore che unisce, e che mai come oggi, è tanto prezioso quanto raro. Grazie, allora, ad Anna Maria e Miriam che con il loro libro, le loro parole e la loro rispettosa amicizia hanno saputo regalarci sane riflessioni.

Si ringraziano le autrici per la disponibilità e l’ufficio stampa, nella persona di Valentina Petrucci, per la copia lettura in omaggio.

Biografia delle autrici:

Anna Maria Castoldi e Miriam Donati, nate negli anni Cinquanta, abitano ai confini nord di Milano. Hanno esordito con Delitti nell’orto (Happy Hour Edizioni, 2017), riedito con un’indagine supplementare da Edizioni Convalle nel 2020. Tra le loro pubblicazioni figurano anche Fughe e ritorni – La sciura Marpol indaga ancora (Scatole Parlanti, 2018), finalista al premio “Garfagnana in Giallo Barga Noir” (2018) e La svolta (Edizioni Convalle, 2019), finalista al concorso “Dentro l’amore” (2019), scritto con Giuseppe Milanesi.

Il sito della casa editrice è: http://www.scatoleparlanti.it

Post in evidenza

“A passi leggeri tra i ricordi” di Martina Campagnolo, Edizioni Convalle, #boodinterviste.

Prefazione a cura di Adelia Rossi.

A volte, i ricordi riemergono inarrestabili, dolorosi. Altre, ci avvolgono le spalle proprio come una coperta calda, che si può prendere dal cassetto quando fa freddo. Talvolta, appaiono sotto forma di immagini ancestrali, alle quali la memoria accede senza nemmeno sapere come. (citazione tratta dall’opera).

Ci siamo quasi. L’inverno sta per lasciare spazio alla primavera, a temperature meno rigide, all’aria più mite, alla natura più colorata. Le coperte di lana, quelle che avvolgono e proteggono, seppur con lentezza, verranno riposte nel ripiano più alto dell’armadio, quello che in estate non apriamo quasi mai. Eppure, la lana è una fibra così pura che protegge anche dal caldo, una sorta di fibra magica, insomma, che riesce a garantire benessere anche quando non te lo aspetteresti.

Martina Campagnolo nel suo romanzo “A passi leggeri tra i ricordi”, pubblicato da Edizioni Convalle, usa la metafora della coperta di lana per affrontare un tema che appare nel titolo e che nutre l’intera opera: i ricordi. Memorie liete, dolorose, coraggiose; immagini scattate in un passato che si riflette nel presente; evocazioni suggestive; dubbi esistenziali e risposte aperte che, vi avverto, non sono faccenda da poco. Un assaggio? Subito servito! Ulisse – uno dei personaggi più impenetrabili dell’intera opera – dice: “Ma l’amore, che cos’è? Solo un’invenzione degli uomini per giustificare la propria debolezza“. Argomento complesso, quasi sacro, mi permetto di dire. Perché l’Amore in ogni sua forma, è un ulteriore tema nel tema e questo pone “A passi leggeri tra i ricordi” un testo nel quale l’Esistenza (nella sua forma più completa e intera) viene sfiorata, spinta, analizzata, osservata, commemorata e vissuta. Il tutto attraverso le memorie che tornano a riempire e spezzare la vita di Maia, lei che è in cerca di radici, di risposte, di speranza. In centossessanta pagine circa accanto a Maia tornano a vivere i suoi nonni e i suoi genitori: tre donne e tre uomini.

La prima persona è stata una scelta narrativa piuttosto coraggiosa, considerato il numero di personaggi, ma l’autrice ha dimostrato un’ottima padronanza del tono di voce e il risultato finale è una danza di voci che convince, che allieta la lettura e che mantiene – questo è un ulteriore nota a favore – un filo conduttore chiaro.

Ora, per meglio addentrarci in questa lettura, incontriamo l’autrice che ha accettato l’invito a rispondere a qualche domanda e a raccontarci qualche curiosità.

VG: Benvenuta Martina. Grazie di essere qui con noi.

MC: Buongiorno Valeria e grazie a te per l’invito.

VG: Raccontaci qualcosa di te. Siamo lettori un po’ curiosi…

MC: Provo sempre una certa difficoltà a parlare di me, perché se dovessi dire tutto potrei scrivere un romanzo. E se dovessi dire l’essenziale, forse, rischierei di cadere nella banalità. Cercherò di essere sintetica ed esaustiva al tempo stesso. Credo che tutta la mia vita sia pervasa dalla curiosità e dalla volontà di migliorare, sempre e in qualunque contesto. Questo è stato il motore che in tempi diversi mi ha portato anche ad allontanarmi da casa e a fare nuove esperienze. A diciotto anni, infatti mi sono trasferita a Parigi per motivi di studio. Era il 1995 e sognavo di vivere in Francia, dove si respirava un clima di grande innovazione e apertura culturale. Invece, subito dopo sono approdata in Toscana, dove abitava il mio compagno e dove ho intrapreso gli Studi in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Firenze. Qui, è nato il mio primo e unico figlio: Leonardo, in omaggio al genio di quei luoghi generosi. Alcuni eventi spiacevoli negli anni successivi mi hanno costretto ad abbandonare gli studi e mi hanno ricondotto nella mia terra natale, in Friuli-Venezia Giulia. Lì, mi attendeva un nuovo inizio, di fatto per nulla semplice. Ero sola con il mio bambino di tre anni e tante sfide da affrontare. Del resto le nuove avventure non mi hanno mai intimidito. Ho lavorato da precaria per un certo periodo. Poi, finalmente è sopraggiunta la stabilità lavorativa e le prime gratificazioni.

Ad un certo punto, è arrivata quella che per me è stata una svolta e un nuovo inizio. La ripresa degli studi universitari. Era un cerchio che si chiudeva. Prima la laurea in lingua e letteratura russa con una tesi sull’Assedio di Leningrado, poi la seconda sulla Shoah nell’ambito della letteratura femminile e della trasmissione della memoria di terza generazione. Un’esperienza che mi ha permesso di ricongiungermi ai miei studi, di fare esperienze formative anche all’estero –sia in Europa che in Russia – e che mi ha dato notevoli spunti per la stesura del romanzo.

Adesso, posso definirmi una donna che è riuscita a realizzare molti dei suoi sogni. Mi sento grata alla vita per ciò che ho ricevuto e riconquistato. Spero, attraverso le cose che scrivo e nel mio quotidiano, di poter rimettere in circolo quest’energia positiva che avverto e che muove i miei passi.

VG: Inizio subito con una domanda che mi ha riconcorso per quasi tutta la narrazione. Quanto c’è, di te, in Maia e negli altri protagonisti?

MC: Questa è una domanda che mi fanno spesso. Preciso però, che il romanzo non è autobiografico. Sicuramente in Maia c’è parte di me. Maia nel romanzo è l’unico personaggio che scava a fondo nel passato per cambiare il futuro, che si interroga sulle sue radici e, se vogliamo, sul senso della vita. Attraversa le vite dei suoi avi analizzandole, ma senza elargire giudizi, lasciando libero il lettore di costruirsi la propria opinione. Inoltre, nella creazione di Maia, ho potuto menzionare luoghi a me familiari, come la Toscana o la Francia dove ho vissuto per un certo periodo. Maia è la figura narrativa che più si avvicina alla psicologia. Gli altri protagonisti, a modo loro, assumono il volto di un’umanità intera, talvolta con le sue gesta eroiche, talaltre con le sue contraddizioni e le sue fragilità. Le vicende narrate sono reali, ma non riconducibili necessariamente ai parenti di Maia. Non nego che, scrivendo alcuni passi del libro, il ricordo dei miei nonni paterni affiorasse nitido alla mia memoria e portasse con sé tanta tenerezza e un Amore puro, con la A maiuscola.

VG: Polenta e latte… Confesso che hai toccato un ricordo, anche mio, ed è un ricordo a cui mi piace tornare, di tanto in tanto. La polenta, infatti, è anche per me un piatto custode di ricordi. Possiamo considerarlo come l’alimento che parla di storia di nonni e nonne, di un tempo in cui il focolare era sempre acceso e le generazioni di ritrovavano a raccontarsi, a tramandare, o anche solo per il gusto di scaldarsi un po’. Raccontaci un’immagine, un ricordo, o da dove hai colto l’ispirazione, quando hai inserito questo alimento che io definisco “narrativo”.

MC: Cara Valeria, anche per me la polenta è custode di ricordi. Dell’infanzia, soprattutto. In effetti, quando ero bambina, la nonna la preparava spesso la domenica. E mentre lei girava il mestolo nel paiolo, io mi accoccolavo sulle ginocchia del nonno paterno accanto al fuoco. Quel momento diventava un luogo magico di racconti e coccole, che mi scalda il cuore ancora adesso.

E allora, quell’alimento, la polenta, diventa davvero anche un elemento narrativo, una sorta di fil rouge che nutre non soltanto lo stomaco, ma anche lo spirito e unisce generazioni di uomini e donne grazie ai gesti che si perpetuano nel tempo.

VG: La Storia è un altro elemento che hai saputo dosare e che ha arricchito la tua opera. Quali sono le tue fonti?

MC: La prima fonte è stato il nonno paterno che, effettivamente aveva combattuto durante la Campagna d’Africa ed era stato in un campo di prigionia scozzese. Poi, le persone della sua generazione. Spesso i loro ricordi, a distanza di tanto tempo, erano frammentati e allora, è stato necessario, in un secondo momento, ricorrere alle documentazioni storiche e agli archivi per verificare la congruenza dei racconti. La scelta di riportare in vita la memoria del nostro territorio e di quel periodo attraverso una narrazione che dia spazio all’emotività e ai sentimenti è anche frutto degli studi compiuti in precedenza: la tesi sull’Assedio di Leningrado per la quale ho intervistato alcuni sopravvissuti in loco, l’attuale San Pietroburgo, condotto ricerche negli archivi e tradotto alcune testimonianze da un libro di memorie popolari. Anche la seconda tesi è stata formativa, poiché verteva sulla Shoah e sulla trasmissione della memoria di seconda e terza generazione senza che essa diventi un esercizio autoreferenziale da parte dell’autore/artista. Nel mio libro perciò la storia, intesa come contenitore ermetico di eventi, non è che lo sfondo di uno scenario che privilegia la trasmissione dei ricordi individuali, umanizzandoli. Non dimentichiamoci, infatti, che il libro non è un trattato di storia, ma un testo letterario.

VG: La solitudine. È una sensazione che si avverte, è quasi palpabile, quasi viva. Qual è il personaggio che consideri più solo e per quale ragione?

MC: Questa è davvero una bella domanda, quasi filosofica. Dici bene la solitudine è una sensazione e può essere avvertita nonostante la moltitudine di persone che circonda i personaggi ed è un tema ricorrente anche nel romanzo attraverso i racconti dei protagonisti. Ulisse è solo alla nascita perché assieme al cordone ombelicale viene reciso uno dei legami più forti dell’esistenza: quello con la madre. Ed è solo, con la Bibbia che gli ha donato la sorella Maria, durante la prigionia in Africa. Anche Ulisse, il personaggio più controverso, nonostante la vita agiata, si ritrova a fare i conti con sé stesso e con il proprio vissuto alla chetichella e in solitudine. Lavinia e Penelope, benché circondate dall’affetto dei familiari, sprofondano in una solitudine imperfetta e inaccessibile agli altri, frutto dell’età che avanza e della malattia. Anche Maia, a modo suo, fa i conti con una sensazione di solitudine penetrante data dai luoghi e dai ricordi che non può più condividere con gli altri personaggi del romanzo. Eppure, in queste varie forme di rappresentazione della solitudine che appartiene un po’ a tutti gli esseri umani in alcuni momenti della propria vita, c’è sempre quella coperta di lana di cui parlavi prima.La lana: un materiale adatto sia in inverno per coprirci dal freddo che in estate, per ripararci dal caldo torrido. E quella coperta è fatta appunto di ricordi e di legami che nessuno ci può sottrarre perché sopravvivono a tutte le temperature e a tutte le stagioni. Quindi, un messaggio non di tristezza ma di luce e calore umano.

VG: Un altro elemento di spessore è il tema della condizione della donna, tema di cui hai parlato con molta grazia. Quale delle tue protagoniste ha sacrificato maggiormente sé stessa?

MC: Ti ringrazio per la molta grazia, Valeria. Anche questo è un tema a me caro. Ho cercato in effetti, di rappresentare l’universo femminile nelle sue molteplici sfumature. Le donne non hanno un ruolo marginale nel romanzo, benché, come dice Tessa, non abbiamo compiuto le gesta eroiche di Ulisse e non abbiano combattuto al fronte. Voglio raccontarti un fatto per me significativo, anche se rischio di allontanarmi dalla domanda iniziale. Quando andai a San Pietroburgo la prima volta, rimasi stupita di fronte ai memoriali sulla Seconda Guerra mondiale e sull’Assedio, perché accanto ai soldati si ergevano statue gigantesche che rappresentavano donne e bambini. Mi piacquero molto queste forme artistiche che celebravano anche le vittime civili. Anche la letteratura era intrisa di narrazioni al femminile su quel periodo. Così, mi sono resa conto di quanto fosse importante il loro contributo per una visione meno celebrativa, ma più umana dei fatti. Inoltre, mi piaceva l’idea di dipingere la donna e i suoi processi di emancipazione in un arco temporale più ampio per delinearne l’evoluzione. Secondo me è Penelope quella che ha sacrificato maggiormente sé stessa. Prima per amore dei suoi genitori, poi, dopo l’abbandono del marito, per allevare la figlia. Un’attesa lunga un’intera vita. Come dice lei in un passo del romanzo: «Non un merletto, ma un filet di spazi vuoti.»

VG: Quale personaggio, maschile o femminile, è stato il primo, quello che ti ha spinta a scrivere? Ci piacerebbe conoscere le fasi preliminari dell’opera.

MC: Il primo personaggio che ha visto la luce è stato quello di Lavinia. Un racconto che è arrivato a me come un flusso emotivo inarrestabile in una grigia domenica di gennaio. Aveva nevicato e il silenzio attutiva persino il rumore dei passi in casa, tanto era fitto. Dovevo scrivere un testo per un laboratorio creativo con Edizioni Convalle, mi sdraiai con una copertina sulla chaise-longue vicino a un termosifone acceso. Dalla finestra entrava una luce diafana e muta. Leggera e penetrante come la neve che si attacca addosso. Iniziai a scrivere pensando a mia nonna, all’ultima volta che la vidi nella casa di riposo in cui soggiornava da qualche mese. Quando ci salutammo, le promisi che sarei tornata presto a trovarla. Da lì a poco, arrivò la pandemia e con essa il primo lock-down. Non potei mantenere la promessa e forse, una parte di me non se lo perdona ancora. Era strano perché quel giorno, mentre scrivevo, non avevo bisogno di cercare le parole giuste. Era come se loro avessero trovato me. Il racconto piacque molto a Stefania Convalle, l’editrice. Dopo qualche giorno, altre storie bussarono alla mia porta: avevano trovato un varco nella mia memoria con cui raggiungermi. Allora, mi vennero in mente le testimonianze tradotte durante la tesi sull’Assedio di Leningrado che erano ancora oggetto di studio e sulle quali avevo intenzione di scrivere. Pensai che sarebbe stato bello poter rendere omaggio alle molte vite che avevano attraversato quel periodo storico anche nel mio territorio, tra esse anche quelle dei miei nonni e di molti dei loro coetanei. Ne avevano di cose da raccontare. Così, abbandonai temporaneamente l’idea del saggio sugli assediati di Leningrado e iniziai a dedicarmi alle storie dei miei corregionali.

VG: Quali sono i tuoi progetti per il futuro – letterari e non?

MC: Nei prossimi mesi ho in programma una serie di incontri letterari e interviste a proposito di “A passi leggeri tra i ricordi”. Nel frattempo ho partecipato ad alcuni concorsi letterari classificandomi tra i finalisti e aggiudicandomi la pubblicazione di alcuni racconti su riviste e su antologie. In futuro, ho anche in progetto di attivare un sito tutto mio in cui dar spazio a opere letterarie contemporanee e non, anche a supporto di studenti che vogliano addentrarsi nella letteratura con un approccio multidisciplinare. Ho cominciato anche a raccogliere altre storie di vite durante la seconda Guerra mondiale e nel periodo della ricostruzione.

Nel frattempo ho iniziato a scrivere un altro romanzo ambientato tra la Russia e l’Italia, ma per il momento non svelerò altri dettagli su questo futuro libro che potrebbe assumere le caratteristiche di un thriller contemporaneo.

VG: Restiamo in attesa, allora, di conoscere il seguito di questi progetti, augurandoti di vederli realizzati esattamente come li hai ideati.

Si ringrazia l’editore per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Martina Campagnolo è nata a Udine. Per motivi di studio ha vissuto a Firenze, soggiornato a Parigi e a San Pietroburgo per alcuni periodi e ora lavora in Friuli come insegnante. Animo sensibile, incline all’arte e al volontariato, sin da giovane ha collaborato con diverse istituzioni.

Si è laureata in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee presso l’Università di Udine con una tesi sull’assedio di Leningrado e una sulla Shoah nell’ambito della letteratura femminile contemporanea. Ha partecipato a progetti europei sulla storia della Prima e della Seconda Guerra mondiale. Interessata alla scrittura ha frequentato corsi di scrittura creativa e di editing. Nel 2019 ha tradotto dal francese alcuni capitoli di Qui, a Bouc, 50 anni dopo! di Elisabeth Fabre Groelly (autoedizione).

Nel 2021 ha partecipato al premio letterario Dentro l’amore, organizzato da Edizioni Convalle qualificandosi tra i finalisti in varie sezioni e aggiudicandosi il primo premio in quella dedicata agli Haiku – forma di componimento poetico sviluppatosi in Giappone nel XVII secolo -.

Nel 2021 ha pubblicato inoltre, La via del Pane in I racconti di Natale (Antologia), Un cioccolatino per il viaggio, Lettera a Gianmarco, Cielo e terra in Antologia Premio Letterario Dentro l’amore VI Edizione 2021.

Di recente ha partecipato al Concorso Letterario Racconti-Friulani organizzato da Historica Edizioni qualificandosi tra i finalisti e aggiudicandosi la pubblicazione del racconto Storia di una Marchesa e di una governante in tempo di guerra (1943-1945) in un’antologia che sarà pubblicata ad aprile 2022.

Con il libro A passi leggeri tra i ricordi, e altre pubblicazioni in antologie sarà presente alla XXXIV edizione del Salone del libro di Torino 2022.

Post in evidenza

“Pentàgora(c)conta – Un fior fiore di narrazioni” a cura delle Narratrici e Narratori di Pentàgora.

Racconti per unire emozioni in tempo di distanze.

Come reagire agli effetti malefici dei tanti lockdown nei quali siamo precipitati? C’è chi non ha smesso di lavorare e chi di sperare, chi ha ritrovato vecchie scatole di ricordi e di idee non sviluppate, chi si è dedicato alla cucina (io ne so qualcosa…) e chi ha vissuto con rabbia e dispiacere il tempo sospeso e – all’apparenza – infinito del distanziamento sociale. Un gruppo di scrittori, invece, come potrebbe affrontare un evento così straordinario, reso ancora più straordinario da un invito che proviene direttamente dalla casa editrice che ha pubblicato i loro sogni di carta e parole?

Questo è il principio di “Pentàgora(c)conta – Un fior fiore di narrazioni” a cura dei Narratori e delle Narratrici di Pentàgora Edizioni.

Nella Notarella a cura della redazione, mi trovo subito a mio agio quando leggo che “si è partecipato al banchetto di Pentàgora con la stessa libertà con cui si arriva a una festa fra amiche e amici, senza accordi preliminari: alcuni hanno portato quel che era già pronto in frigo (dolce, piccante o amaro… non importa), altre hanno confezionato pietanze nuove per l’occasione…”. Grazie a queste semplici metafore, il clima che mi attende è invitante e ha il sapore di ritrovo, di un’occasione speciale, di un momento di condivisione a base di una forte identità, come solo le raccolte di racconti sanno essere. Tante penne, stili diversi e trame sempre nuove mi attendono. Mi immergo nella lettura e le sorprese sono tante, tutte di pregio.

Non ho intenzione di segnalare titoli o nomi degli autori in ordine di apparizione, né di raccontarvi le sole trame, i visi dei personaggi (così come li ho immaginati) o le loro voci: entrerei in una fase di spoiler che non amo mai, soprattutto quando si tratta di un’opera a più mani.

Preferisco concentrarmi su elementi che hanno saputo emozionarmi, che mi hanno trasportato in un angolo lontano, eppure vicino, tra le righe e le metafore che mi hanno convinta.

La prima evidenza è l’ambientazione: come da premessa, ogni autore ha compiuto una scelta netta, ma molte sono le somiglianze. Una di queste è la Liguria – la terra nativa di molti degli autori e dell’editore stesso – che qui viene descritta come culla, casa, protettrice di panorami mozzafiato, landa di mare e vento, di montagna e torrenti che, a causa di forze ancestrali, diventano portatori di distruzione. La Liguria è anche la terra dei profumi: la focaccia appena sfornata, le castagne d’autunno che colorano i boschi, i taggèn all’uovo (i taglierini) fatti di forza, delicatezza e amore.

Per quanto riguarda il periodo storico, gli autori hanno spaziato lungo la linea del tempo: la guerra del secolo scorso e la moderna pandemia sono diventate sfondo e protagoniste. La grazia della narrazione, in ogni caso, è percepita e molto gradita.

I protagonisti sono tutti viscerali, vibranti: ci sono uomini di valore, una madre e un figlio incastrati in un rapporto silenzioso, una dolce bambina che vive una fiaba, donne che conoscono il significato dell’amore, un gruppo di amici che non si arrende all’avanzare dell’età e molti altri ancora, tutti degni di essere chiamati protagonisti.

I temi che emergono, tra gli stili diversi, sono tanti, come immaginerete, e in questa sede ne citerò solo alcuni: la condizione della donna, la speranza, la solidarietà, la comunità, il rapporto tra uomo, natura e i suoi frutti, la povertà, il lavoro e il sacrificio.

In conclusione, “Pentàgora(c)conta – Un fior fiore di narrazioni” è un patchwork di immagini, emozioni, suggestioni e personaggi distinti, creati ognuno sulla base di una forte identità.

Si ringrazia l’autrice Helena Molinari (suo il racconto “La neve speciale”) per il file lettura omaggio.

Il sito della casa editrice è : https://www.delfinoenrileeditori.com/pentagora/.

Post in evidenza

“Nehustan – Viaggio tra esoterismo e realtà” di Francesco Colamartino, Scatole Parlanti.

“Un labirinto di congetture così intricato che il pensiero avrebbe facilmente rischiato di trovarvisi prima o poi prigioniero.” Citazione tratta dal romanzo.

Mai come oggi, ritrovarsi prigionieri all’interno di un mondo basato su congetture, pensieri, immagini e parole è una condizione piuttosto frequente. Stiamo vivendo in un’epoca storica gravata da un senso di incertezza e questo, inevitabilmente, ci porta a cercare, sempre più, una guida che ci tenga per mano. Una luce, un sostegno, un faro… qualsiasi mezzo disponibile, pur di ritrovare la strada e raggiungere la meta. A questo, purtroppo, si aggiunge il peso del potere, della cattiveria, dell’ingiustizia e della prevaricazione che inevitabilmente causa disorientamento, cadute, perdite: una battaglia nella battaglia, insomma.

Leggere ““Nehustan – Viaggio tra esoterismo e realtà” di Francesco Colamartino, edito da Scatole Parlanti, mi ha fatto riflettere su come l’uomo abbia, ancora e forse sempre più, il bisogno di cercare sé stesso quando le condizioni si rivelano avverse.  

La trama di questo romanzo avventuroso trae spunto da un fatto realmente accaduto che, qualche anno fa, coinvolse il mercato del lusso – pietre preziose, per la precisione – in una truffa ai danni di risparmiatori (alcuni dei quali erano personaggi famosi). Il protagonista creato da Colamartino si chiama Stefano, è un giornalista milanese, e ha il compito di indagare su ciò che sta accadendo alla sua famiglia che è implicata, all’apparenza, in questioni poco chiare (brokeraggio di pietre preziose dall’Africa, ecco il riferimento al fatto di cronaca). Artuto, zio e fondatore, sembra aver perso la ragione; la zia Myriam– la mente che ha creato l’impero – sembra aver perso le forze mentre una pietra verde dai poteri unici è svanita nel nulla. Il protagonista vola in Africa per affondare nell’indagine: l’attendono incontri fantastici, personaggi misteriosi, un piatto di wat incompleto ben lontano dai ricchi sapori che egli aveva immaginato, poche risposte, una guerra e un vuoto che deve colmare. Intanto, a Milano, la famiglia, la città e l’azienda sono precipitate nel buio e nella follia: solo Stefano può riportare la luce e la pace.

Il punto di vista del protagonista emerge con determinazione, per tutta la durata della lettura, mentre gli scenari si alternano, la suspense cresce e i misteri diventano sempre densi di magia e spiritualità. L’avventura, in generale, è ben costruita: l’autore si è avvalso di miti e leggende, di storia e religione, e questa scelta ha influito positivamente, nella narrazione, perché ha reso il racconto più ricco, più ricercato. Una sorta di porta, insomma, che si apre su concetti e valori che cambiano l’uomo e che lo mettono di fronte al Bene e al Male: potere e giustizia, violenza e civiltà, obbligo e scelta, segreti e verità, amore e solitudine, incredulità e stabilità. E il viaggio, naturalmente. Un viaggio spirituale, contro le paure e i sospetti, tra i limiti del nostro io e alla ricerca della propria, innata, forza.

Consiglio di lettura. Vista la sua ricchezza di contenuti e il genere avventuroso, leggete “Nehustan – Viaggio tra esoterismo e realtà” quando avvertite il bisogno di vivere un’esperienza che, altrimenti, non potrete vivere.

Si ringrazia l’ufficio stampa per il file lettura in omaggio.

Nota brografica dell’autore:

Francesco Colamartino, nato in Abruzzo nel 1988, vive e lavora a Milano. Giornalista professionista dal 2014, dopo aver mosso i primi passi nell’informazione finanziaria (Gruppo Class Editori), attualmente scrive per la testata “Citywire Italia”. È attivo nella realtà dei club filantropici da circa dieci anni. Nehustan – Viaggio tra esoterismo e realtà è il suo primo romanzo.

Post in evidenza

“Tutto Torna – Le indagini dell’avvocato Joe Spark” di Marcella Nardi. #boodinterviste.

“Joe non era certo che Ely non lo stesse prendendo in giro. Era così brava a mascherare le proprie reale intenzioni.”

Ho amato la citazione che vi ho riportato. L’ho amata perché la considero una delle più interessanti e rilevanti, una delle più semplici ma fondamentali per comprendere l’andamento di “Tutto Torna”, la nuova indagine che vede come protagonista Joe Spark, l’iconico avvocato statunitense creato dalla talentuosa Marcella Nardi.

Siamo sempre a Seattle, la città in cui Joe Spark vive e lavora e, in questo capitolo della sua vita, egli si trova a dover affrontare molto più che un caso, molto più che un’indagine, molto più che un’inchiesta intricata. La persona che scompare è sua moglie Ely, la donna che è stata la sua donna e che ha il potere di spostare i suoi equilibri, sgretolare le sue certezze, appannare la sua forza. Ancora, nonostante il loro passato.

Joe vacilla, più volte, si perde in congetture, lascia che la rabbia gli scorra nelle vene, sprofonda nei sensi di colpa e si domanda – spesso – quali siano state le vere intenzioni di Ely, i suoi dubbi, i motivi che l’hanno spinta a tacere silenzi e scelte discutibili. L’avvocato cerca di mascherare l’impotenza mangiucchiando in una caffetteria; si nasconde nelle sue abitudini, sorseggiando una birra al banco del solito bar irlandese; afferra un raggio di speranza, quando pensa a una cena in un ristorante italiano.

Per tutta la durata della lettura, ho avvertito una profonda sensazione di umanità che l’autrice ha fatto indossare al suo personaggio (uno dei più coraggiosi e decisi, a mio avviso). Ha lasciato emergere la fragilità di un uomo davanti all’amore, alla passione, al tempo che non è mai – davvero –  trascorso. Il quadro psicologico complessivo è chiaro, ben delineato, e il lettore viene coinvolto in egual misura dall’indagine e dallo smarrimento di Joe.

Non vi dirò altro perché l’autrice ha accettato il mio invito a raccontarsi: un ottimo modo per inaugurare l’anno di Bood!

Buongiorno Marcella. Grazie per aver accettato il mio invito.

  • Grazie a te, Valeria. Felice, ancora una volta, di essere tua ospite.

Tre pregi e tre difetti per raccontarti.

  • PREGI – Amo la vita, amo sorridere e dare un sorriso. Ma il pregio, forse maggiore, è la voglia e la forza di realizzare i miei sogni, e crederci.
  • DIFETTI – Oddio!!! Tanti. Vediamo… Sarà l’età, ma non riesco più a tenermi le cose dentro. Sono paziente, ma quando esplodo… è per sempre. Un altro difetto è l’ordine. Credo di avere una specie di ossessione. Se devo dormire e la luce ovviamente è spenta, non riesco sapendo, per esempio, che un cassetto non è chiuso bene. Mi volete torturare? Bene… tenetemi in una stanza disordinata per oltre due o tre ore. Mi scoppia un gran mal di testa. Non sono brava a seguire le ricette. Spesso le sbaglio alla grande. Devo riprovarle tante volte.

In “Tutto Torna” ho affrontato un viaggio nei sentimenti di Joe. Siamo alla quarta indagine e, avendo avuto il privilegio di averle lette tutte, sento di conoscerlo, almeno in parte. Da dove è nata l’ispirazione per creare questo fortunato personaggio?

  • Avevo voglia di cimentarmi con un personaggio maschile.
  • Ho cercato di concentrare in Joe il grosso degli aspetti caratteriali che amo in un uomo.
  • Gli ho anche affibbiato molte caratteristiche che degli uomini mi fanno ridere o mi danno fastidio: la paura della malattia, la paura di aprire nuovamente il proprio cuore dopo una delusione, come se la vita fosse eterna, l’incapacità di fare più di una cosa alla volta.
  • Da quasi quattordici anni vivo alle porte di Seattle, città molto bella e a misura d’uomo. Ha una popolazione che non supera i 750 mila abitanti. Volevo offrire ai miei lettori uno spaccato di vita e una specie di tour costante per le strade di Seattle e del suo hinterland.
  • A quanto pare sono riuscita a creare un bel personaggio. Non posso che esserne felice.  

C’è un luogo e un orario in cui trovi maggiore ispirazione?

  • Scrivo quasi sempre dopo le due o tre del pomeriggio. Non mi piace scrivere la mattina.
  • L’ispirazione mi viene in momenti vari. Annoto sempre tutte le idee e se non ho da scrivere, appunto nella app di promemoria del cellulare quello che mi è venuto in mente di scrivere o modificare.
  • La maggiore ispirazione è la cronaca nera o le serie tv o film.

Quanto conta, secondo te, la copertina di un libro? Nei tuoi, sei tu a scegliere o hai qualcuno che ti consiglia?

  • C’è un gran caos in merito.
  • Ci sono venditori di fumo che per 5 euro vendono copertine, senza specificare bene che il grosso sono sempre le stesse con qualche variante. Potrebbero andare benino per gli ebook, non per i cartacei. Per i cartacei si deve sempre sapere le pagine e il formato.
  • Poi c’è chi chiede varie centinaia di euro. Io rispetto molto questi ultimi. Fare una copertina non è cosa di qualche oretta e basta.
  • Le mie sono pensate e realizzate da me. Quando ho realizzato due o tre varianti, le sottopongo al giudizio di un paio di persone di cui mi fido in termini di gusti e di sincerità. Con Adobe Photoshop le realizzo, sia per l’ebook sia per il cartaceo. Ho lavorato come hobby per uno studio grafico dal 1996 al 2001.

Domanda di rito: raccontaci i tuoi progetti per il futuro (anche non letterari).

  • Letterari: ne ho due nuovi, anche se per ora sto lavorando al quinto romanzo di Joe Spark. Vorrei realizzare un libro fotografico con foto da me scattate su questo pianeta nei miei tanti viaggi. Sto ancora pensando al format. Vorrei anche realizzare una specie di biografia, anche questa con un format simpatico. Vedremo…
  • Altro: sto pensando a dei viaggi futuri. Vorrei vedere il nord est dell’Australia; alcune nazioni dell’Asia e dell’Africa, anche se con questa situazione di pandemia non so quando. Sto pensando al mio nuovo lavoro di modellismo medievale. Vorrei realizzare il castello aragonese di Taranto. E tante altre cose…  

E se vorrai, un posto qui, per condividere i tuoi progetti, ci sarà sempre!

Ringrazio l’autrice per la sua disponibilità e per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice.

Marcella Nardi è nata nel borgo Medievale di Castelfranco Veneto e ha lavorato per ventidue anni, tra Segrate e Milano, come Project Manager, dopo la laurea in Informatica nel 1986. Dal 2008 vive a Seattle, USA, dedicandosi all’insegnamento dell’italiano, alle traduzioni tecniche e alla scrittura di romanzi. Tra le tante passioni c’è la Storia antica e medievale, la fotografia, i viaggi, la lettura, il modellismo storico e, soprattutto, un grande amore per la stesura di romanzi. Negli anni ha vinto 3 premi nazionali, nel Lazio, Lombardia e Sicilia. Dal 2013 continua a scrivere e ha al suo attivo oltre 15 pubblicazioni. Due serie poliziesche: Le indagini del commissario Marcella Randi Le indagini del detective Lynda Brown”. Una serie di genere Legal thriller, ambientato a Seattle, USA: Le indagini dell’avvocato Joe Spark. Sulla scia dei mitici “gialli per ragazzi” degli anni ’60 e ’70, ha dato vita a una serie di Gialli Young Adult: Le indagini di Étienne e Annabella, dove due studenti universitari si cimentano a fare i detective. Ha anche scritto un romanzo mystery/storico dal titolo Joshua e la Confraternita dell’Arca, un paranormale, un romance/erotico e alcuni racconti.

Post in evidenza

“Anime animali” di Amelia Belloni Sonzogni- #boodperglialtri

“Ad Ufinta piaceva il castagnaccio, forse per il profumo di bosco, o l’aroma del rosmarino; o per l’uvetta, così dolce…”

“Anime animali” di Amelia Belloni Sonzogni inizia con questa frase. Una frase che, per chi non ha ancora letto la raccolta di racconti, anticipa moltissimo e per chi, come me, è già arrivato alla parola fine, ha un potere evocativo di altissimo pregio.

C’è una parola, all’interno di questa frase, sulla quale vorrei portare la vostra attenzione, cari lettori. È l’aggettivo “dolce” che chiude il periodo, come una sorta di conclusione, ma anche di avviamento a qualcosa che verrà, che il lettore è chiamato a scoprire.

La dolcezza, dunque, è un’emozione che si apre sui capitoli come un ventaglio, che affianca la narrazione e la sostiene, che accompagna le avventure dei protagonisti. Protagonisti umani o animali, ovviamente.

L’umanità degli animali, come sostiene la stessa autrice nella breve ma intensa presentazione che ha dedicato in apertura ai lettori – ma di pregio è anche la prefazione del Professor Mantegazza -, è un tema che ritroviamo, anche in quest’opera e che, spesso, mi ha ricordato l’opera prima “Io ho sempre parlato” – https://wordpress.com/post/bood.food.blog/300 – per la sua semplice autenticità e per quel dolce coinvolgimento che giunge con spontaneità.

Protagonisti e trama sono variegati, come è giusto che sia quando ci si imbatte in una raccolta di racconti, e le foto che aprono ogni racconto sono un’ulteriore narrazione nella narrazione. Non voglio svelarvi troppo, sulle variopinte trame e relative avventure, ma Ufinta – la mula coraggiosa che ama il castagnaccio -; il cane Dog – lui che ha il compito di cambiare la vita di una famiglia -; la piccola cagnolina Jessy – lei che cattura l’attenzione di una famiglia a cena – sono solo alcune delle anime che incontrerete.

L’autrice, attraverso la sua visione del mondo animale –  un mondo di zampette e occhietti umanizzato –  narra storie di famiglie divise, di rapporti tra genitori e figli, di silenzi da spezzare, di ricordi, di viaggi fisici e sentimentali, di rapporti ritrovati, di raccordi e ritorni, di pranzi di famiglia a base di piatti della propria e unica tradizione famigliare. Il quadro finale è un melting pot di istantanee di vita, di case, di cucine, di suoni, di sguardi e mani, di quotidianità, abitudini e novità, di valori e ricordi.

Infine, le ultime note vanno sullo stile e sull’ambientazione, entrambi frutto di una capacità espressiva notevole.

La prima persona, il narratore onnisciente, la forma epistolare, i dialoghi e le descrizioni precise sono usate ad hoc, e aiutano il lettore a entrare in sintonia con la narrazione.

L’ambientazione, infine, rispecchia ulteriormente l’insieme armonico che l’autrice ha voluto dare, in quest’opera: Adige e Brenta, Liguria, la città di Milano sono luoghi che ritornano con toni sempre diversi. Perché l’autrice, grazie alla variegata moltitudine di personaggi, accompagna il lettore in scenari diversi: strade di città, sentieri di montagna nei quali l’eco della guerra si fa sentire, la spiaggia e il mare in un periodo insolito… Giusto per citarne alcuni.

Mi piace definire “Anime animali” un insieme. Un insieme di sentimenti e stili di scrittura, di avventure e ricordi, di scenari e viste, di animali e persone. Il tutto legato da un unico denominatore comune: la dolcezza.

Consiglio di lettura. Consiglio di leggere “Anime animali” quando hai bisogno di una carezza e quando hai necessità di guardare il mondo da un’altra angolazione.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

I diritti d’autore che “Anime animali” riceverà saranno interamente devoluti all’associazione Save the dogs and Other Animals per il progetto contro il randagismo “Non uno di troppo – Calabria”.

Nota biografica dell’autrice:

Amelia Belloni Sonzogni, nata a Milano, già insegnante di lettere e storica, si dedica ora alla scrittura per il piacere di raccontare e con lo scopo principale di aiutare le creature deboli e indifese, cani soprattutto.

Post in evidenza

“Terra sporca” di Marco Speciale, AltreVoci Edizioni.

L’atmosfera natalizia è entrata nel vivo: le luci calde della sera sfidano i venti gelidi e l’aria vibra di attesa, di novità. Non solo. In questo periodo dell’anno, parole come speranza e legame assumono un sapore ancor più speciale e i profumi delle case iniziano a sapere di buono, di qualcosa che, ancora, riesce a stupirci. Questa è un’ambientazione che fa gola a molti scrittori, senza dubbi, non solo per le dolci novelle natalizie antiche e moderne, ma anche per un giallo intrigante su sfondo d’inchiesta.

Il giallo che ho letto, ambientato nello spazio temporale pre-natalizio, è “Terra sporca” di Marco Speciale, edito da AltreVoci. Siamo nella città di Monza che sta per essere illuminata dalle luci di Natale e la Val Padana tutta sta per essere travolta da un’inchiesta denominata “Terra Sporca”, per l’appunto, e che ha inizio con l’omicidio di un noto imprenditore: Giulio Malacorda. L’indagine è nelle mani di un curioso (e molto ben assortito) gruppo: il questore Alvaro Seppi, un uomo che sta per affrontare un dramma; l’agente Amina Spalma, la donna dalla pelle ambrata e sorrisi decisi; l’agente Innalfo, detto la Volpe ; l’agente Martì, preciso, semplice, costante; l’agente Locatelli, un bergamasco che lavora d’impegno. Il gruppo di agenti lavora a stretto contatto col vicequestore, Matteo Caserta, originario di Benevento, trapiantato al Nord con moglie e figli, per via della carriera, della possibilità di crescita, del miglioramento.

Addentrandosi nella lettura di “Terra sporca” si evince subito quella dolce leggerezza mista a umanità che l’autore ha scelto, come stile, per raccontare una vicenda cruda, che riserverà non pochi colpi di scena. La vena ironica non stride, anzi, è una piacevolissima compagnia ed è una costante che si ripete per tutta la durata della narrazione.  

Nel delineare la personalità dei personaggi, l’autore ha mantenuto la promessa e il risultato è una lettura coinvolgente, sincera. Non mi dilungherò nel raccontarvi le particolarità di ognuno, sono convinta che il lettore debba avvicinarsi alla sostanza con la mente vergine, ma mi permetto di raccontarvi quanto Caserta sia speciale.

Innanzitutto, il rimando alle sue origini. È un tema che ricorre, con

gradevole puntualità, e la nostalgia che si percepisce riesce a emozionare.

“… era quasi ora di pranzo. Decise per un atto ardito, una sfida a se stesso: entrare in una pizzeria del Nord. Già sapeva come sarebbe finita, rimpianti e recriminazioni come se piovessero…”

Un esempio, questo della pizza che con la sua semplicità riesce a far emergere una chiara immagini di chi è, davvero, Matteo Caserta: un uomo autentico, che nonostante la determinazione e il coraggio che la sua professione richiede, non ha mai perso il contatto con la realtà, con la vita, con se stesso.

Nel mezzo della narrazione, quando ormai l’indagine è avviata e il lettore si trova catapultato in una vicenda che ha il sapore amaro della corruzione, delle bugie e degli intrighi più pericolosi – soprattutto perché il danno inflitto è sempre rivolto ai più deboli – l’autore presenta un’ulteriore immagine di Caserta che ho trovato irresistibile:

“…l’atmosfera della sua casa era quella di un circo senza spettatori. Per non inalare quell’aria triste, si diede da fare in cucina, bisognava pur mangiare. L’ulcera consigliava prudenza e optò per una semplice pasta in bianco. Ma la sua disabitudine a cucinare lo portò a disattendere una semplice regola legata al buon senso: per salare c’è sempre tempo…”

Anche adesso, dunque, ci giunge con chiarezza la forte personalità del personaggio, attraverso una scena intima, di casa, nella quale la solitudine fa da padrona.

Per tutta la durata della lettura, infine, ho gradito la coinvolgente ironia di cui la narrazione è ricca, quei passaggi commoventi, quei rimandi alla giustizia e al coraggio, al sacrificio e alla speranza e, soprattutto, al senso più profondo che si nasconde nella verità.

Consiglio di lettura. Leggete “Terra sporca” quando volete entrare in un’indagine “sporca” che vi strapperà sorrisi e qualche lacrima.

Si ringrazia l’ufficio stampa AltreVoci per il file lettura omaggio.

Nota biografica dell’autore:

Marco SPECIALE

Nasce a Milano nel 1963. Durante gli anni dell’Università collabora con riviste e giornali della piccola editoria, una vera palestra. Partecipa con racconti e poesie ad alcuni concorsi letterari, ottenendo pubblicazioni in antologie e alcuni piccoli successi. Il suo lavoro di educatore finisce però per assorbirlo totalmente, al punto da arrestarne il percorso di scrittura. Nel 2015 riprende la sua antica passione con nuova consapevolezza. Con il racconto La scomparsa della verità vince il concorso Giallomilanese 2015. L’anno successivo viene pubblicato il suo romanzo d’esordio, Prima dei titoli di coda (ExCogita), che ottiene diversi riconoscimenti, tra cui il podio al Premio Letterario “Città di Arcore”. Nel 2017 è finalista al Premio Alda Merini (sez. racconti noir) e al Premio Gozzano (sez. racconti). Nello stesso anno viene pubblicato il suo secondo romanzo: Il nome della notte (ExCogita). Del 2018 è il romanzo Il palazzo dei percorsi perduti (ExCogita)

Il sito internet della casa editrice è: http://www.altrevociedizioni.it

Post in evidenza

“Natale con amore” di Elena Andreotti.

L’atmosfera natalizia è una delle più versatili, in letteratura. Sarà per via del calore che contrasta il freddo stagionale, delle luci o dell’attesa, dei buoni sapori che consolano o del bisogno degli Altri, … insomma l’Avvento genera un clima speciale, così unico che la penna dello scrittore sa cogliere e trasformare in gradevoli letture.

“Natale con amore” di Elena Andreotti ne è un valido esempio. L’autrice, già ospite del blog in passato, è una giallista, come ricorderete. Il suo stile di scrittura schietto e sintetico ha raccontato molte indagini e continua a coinvolgere i lettori ma, al tempo stesso, sta dando prova di un’autentica e molto interessante prova di ampliamento delle sue capacità, anche in altri generi, più soft e romantici. “Natale con amore”, infatti, non ha nulla a che vedere con la suspence che rapimenti e omicidi generano: è più da considerarsi una dolce novella, una storia d’amore semplice, di quelle che hai bisogno di leggere, di tanto in tanto, per ritornare ai momenti lieti e quel briciolo di speranza che è indispensabile, nella vita di tutti i giorni.

In questa trama, l’autrice ha affidato il ruolo di protagonista ad Alexandra. Lei è una donna che ha raggiunto il successo lavorativo a New York e che sta per tornare a casa – nella fredda e selvaggia Alaska – per guardare il suo passato da una nuova angolazione. Il Natale alle porte, la neve, il vento tagliente, il villaggio della sua infanzia, i sapori ritrovati (salmone, pudding, bevande al cioccolato, carne alla brace, vino ai mirtilli), i giochi da tavolo che allietano e strappano sorrisi, l’amicizia e il senso di comunità sono tutti elementi che riempiono la trama e spingono Alexandra – e il lettore – verso un finale lieto, in cui l’Amore si guadagna il ruolo di nuovo protagonista della novella.

Lo scenario che l’autrice ha creato è un ulteriore elemento di spessore, invitante e affascinante, che spicca nel racconto e che ne diventa parte integrante.

Il ruolo della donna, inoltre, come già ho colto in passato nelle opere di Elena Andreotti, qui torna con determinata dolcezza, con coraggio, con audacia e con una spinta verso il futuro ben delineata, chiara, comprensibile.

Infine la scelta: è un tema ricorrente, che insegue la protagonista per gran parte della trama e che alimenta la curiosità del lettore, fino all’ultima pagina, fino all’ultima riga.

Consiglio di lettura. Leggete “Natale con amore” per scoprire qualche curiosità circa una terra lontana come l’Alaska e, soprattutto, quando sarete prossimi a compiere una scelta d’Amore.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio e per la foto.

Nota biografica dell’autrice:

Elena Andreotti
Sociologa con perfezionamento in bioetica.
Ha lavorato per circa venti anni nella P.A. dove si è occupata a lungo di informatica, partecipando a progetti riguardanti il sistema informativo aziendale e curando la formazione dei colleghi.
Attiva nel volontariato, attualmente cura la formazione dei volontari.
Ha collaborato per una decina d’anni con un periodico locale, occupandosi della rubrica di bioetica.
Appassionata di pittura, fotografia e macrofotografia che pratica dilettantisticamente, ma con buoni risultati. Lettrice onnivora, predilige la letteratura gialla’ e fantascientifica.

Libri già pubblicati
Due collane e un romanzo rosa che trovate dettagliatamente nella Pagina autore di Amazon
• Blog personale: Non Solo Campagna – Il blog di Elena
• Blog personale: Elena Andreotti ‒ scrittrice
• Profilo Facebook: Elena Andreotti
• Pagina Facebook: Non solo
Campagna – Il blog di Elena
• Profilo di Instagram: @elena.andreotti.autrice

Post in evidenza

“Non ho mai visto inciampare l’amore” di Chiara Briani, Augh Edizioni.

“…Ci sono momenti della vita in cui il tempo di ferma e le circostanze diventano eventi…” Citazione tratta dal libro.

Un’affermazione intensa, questa tratta da “Non ho mai visto inciampare l’amore” di Chiara Briani, Augh Edizioni. L’ho scelta senza dubbi, perché credo fermamente in questo concetto: la vita è fatta di momenti nei quali il tempo si prende il ruolo di protagonista e proprio in questi frangenti avviene il cambiamento, quello che non ti aspetti, quello che determina il prima e il dopo. Un tempo che separa o unisce, che sbiadisce o colora, che insegna o che insegue.

Andrea ed Elena, i protagonisti del romanzo, sono una coppia normale, una tra tante. Un amore nato per caso, o per via del destino; una promessa strappata con un sorriso – quella di rivedersi al museo, in un futuro lontano ma ben visibile -, un progetto di vita insieme; una cucina ampia, dove le spezie di Andrea emanano profumi lontani legati a tempi lieti. Un figlio, un’ottima posizione sociale e professionale per entrambi, la passione per l’arte, per le cose belle. Una vita perfetta, insomma.

Andrea ed Elena vivono, si amano, si tendono la mano, si sorreggono. Andrea dichiara che la vita è fatta di momenti semplici: una pizza con gli amici, una zuppa calda, l’amore. Elena ama gli impressionisti, l’arte è una delle sue più grandi passioni.

Il tempo, tuttavia, si ferma ed è una fermata ingiusta che cambia l’ordine delle cose, il loro valore, inevitabilmente, senza pietà.

Chiara Briani, con una scrittura intensa, ti trascina all’interno di una trama commovente e coinvolgente. Il dolore viene elargito in dosi massicce ma con una dolcezza struggente che lascia, nel lettore, una scia di emozioni e suggestioni. L’autrice ha usato la tecnica di narrazione mista: la prima voce è quella di Elena, poi subentra quella dolce di un narratore che afferra momenti di un passato felice e li inserisce nel presente sbagliato. Appare anche la forma epistolare, una forma che, in questo contesto, ho apprezzato molto. Tra passato e presente non troverete un percorso statico e questo aspetto crea una danza tra fatti, impressioni, emozioni (tante, tantissime) e la personalità dei personaggi che diventa sempre più delineata, certa. Mentre leggi affronti il tema dell’Amore, del rapporto tra figli e genitori, della solitudine e dei silenzi, dell’accettazione, del tentativo di sopravvivere in compagnia di un peso ingiusto, della speranza, della vicinanza e del sostegno. E degli eventi che diventano circostanze, appunto, dai quali fuggire è impossibile.

Consiglio di lettura. Leggete “Non ho mai visto inciampare l’amore” quando avete bisogno di ritrovare il senso delle cose, quello più autentico.

Si ringrazia Valentina Petrucci dell’ufficio stampa per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Chiara Briani è nata a Padova. Vincitrice del premio giovani di critica letteraria “Giovanni Comisso” e di altri premi minori, ha lavorato come giornalista pubblicista. Con Alter Ego ha già pubblicato Voglio potermi arrabbiare(2016), Mrs Grace (2017) ed è presente nell’antologia 80 voglia di ammazzarti (2020) con il racconto Flashdance.

Il sito della casa editrice è: http://www.aughedizioni.it

Post in evidenza

“Sarai Solo Mia – Le indagini del detective Lynda Brown” di Marcella Nardi.

Mi chiamo Lynda Brown e sono americana, del Massachussetts…” Citazione tratta dal romanzo.

Questa è una parte dell’incipit tratta del romanzo giallo dal titolo “Sarai Solo Mia – Le indagini del detective Lynda Brown” dell’autrice Marcella Nardi. Ho scelto di proporvi questa breve frase perché credo che queste poche parole siano molto rappresentative e siano un ottimo spunto per introdurvi questa lettura.

Marcella Nardi ci porta a conoscere uno dei tanti protagonisti che ha creato con la sua penna precisa: Lynda Brown è una donna che ha fatto del suo mestiere – il detective – uno stile di vita, un bisogno, una sorta di estensione di sé. Il guaio è che ha raggiunto il traguardo tanto ambito: la pensione. Una bella illusione, per una donna come lei che, pur essendosi creata una vita ricca di interessi, resta nel profondo una donna di giustizia e dovere, di princìpi e valori. La “pensione” e l’Italia – Ostia Antica, per la precisione, alle porte della Capitale – dovrebbero essere la sua nuova vita: tranquilla, morbida, familiare.

Invece…

La classica coincidenza, che nel genere giallo è una componente di particolare interesse, accade e Lynda si trova un caso tra le mani che la coinvolge subito, senza attese, senza titubanze: la figlia di una delle sue più care amiche, infatti, viene brutalmente assassinata. Questo sarà solo il primo omicidio sul quale la detective dovrà indagare e, nel farlo, la sua forte personalità dominerà piacevolmente la trama.

Marcella Nardi inizia il racconto dando voce alla sua protagonista: il primo capitolo è narrato in prima persona e questo conferisce al testo una nota intima ma già piena di suspence. Dal secondo in poi, un narratore dalla voce fluida entra in scena per accompagnare il lettore in una storia a tratti cruda, dalla quale emergono molti aspetti psicologici di grande rilievo.

Primo tra tutte l’amicizia. Le amiche sono un gruppo coeso, che si ritrova al solito bar, per iniziare la giornata con piacevoli scambi di opinioni a base di caffè espresso, succo d’arancia fresco e dolci evasioni. Nel loro piccolo mondo vive un mondo più grande, più profondo, perché è nei legami che si trovano le risposte, la forza e la determinazione ad andare avanti. L’intenso legame – quello che è parte fondamentale del team – si percepisce con ulteriore coinvolgimento quando Lynda inizia a lavorare all’indagine insieme a Isabella Rigolli, un altro personaggio di grande spessore. 

Un altro aspetto che emerge dalla lettura e come si evince dal titolo, è l’evidente riferimento all’atto di violenza ai danni delle donne. L’autrice spazia, scava, porta alla luce tradimenti, segreti, silenzi, vite parallele. La sicurezza, il senso di famiglia e l’impegno costante che ciò richiede vengono messi in discussione, a tratti tagliati di netto, come una lama che separa. La narrazione accelera ulteriormente, nel corpo del romanzo, e il lettore si trova ad affrontare un viaggio pieno di salite, di domande, di ipotesi e il bisogno che si percepisce è lo stesso di Lynda e Isabella: arrivare prima che il peggio accada.

Un ulteriore elemento interessante, in questo libro, è legato alla sfera personale della protagonista. L’autrice presenta una donna autentica: forte ma piena di dubbi e contrasti; determinata ma dolce e attenta ai bisogni della sua famiglia. Una donna che lotta, che non si arrende, che non evita la sofferenza e che guarda alla solitudine con gli occhi saggi di chi ha capito che è una parte fondamentale della vita.

E, infine, l’autrice scrive la violenza con tagliente precisione, senza eccessiva brutalità, ma porta al lettore un quadro completo di rabbia e dolore che coinvolge e che lascia trapelare molte riflessioni.

Consiglio di lettura. Leggete “Sarai Solo Mia” – Le indagini del detective Lynda Brown” quando avete voglia di immergervi in una storia avvincente e quando avete bisogno di ritrovare il senso del dovere.

Si ringrazia l’autrice per l’invio del file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Marcella Nardi nasce nel ridente borgo Medievale di Castelfranco Veneto. Si laurea in Informatica, campo in cui lavora per ventidue anni, tra Segrate e Milano. Nel 2008 si trasferisce a Seattle, USA, dedicandosi all’insegnamento dell’italiano, alle traduzioni tecniche e alla scrittura di romanzi. Molte sono le sue passioni: la Storia antica e medievale, la fotografia, i viaggi, la lettura, il modellismo storico e, soprattutto, una grande fantasia nella stesura di romanzi. Come amante di “gialli” e di Medioevo, Marcella si è classificata al terzo posto, nel 2011, al concorso “Philobiblon – Premio letterario Italia Medievale” con uno dei sei racconti che hanno dato vita al suo primo libro, un’antologia, dal titolo di “Grata Aura & altri gialli medievali”, la cui prima edizione si chiamava “Medioevo in Giallo”.

Nel dicembre 2014 ha vinto il Primo Premio al concorso “Italia Mia”, indetto dalla Associazione Nazionale del Libro, Scienza e Ricerca, con un racconto ambientato a Gradara.

Continua a scrivere e dal 2013 ha al suo attivo oltre 15 pubblicazioni. Ha creato due serie poliziesche: “Le indagini del commissario Marcella Randi(6 romanzi in cui la detective è proprio lei: quasi lo stesso nome e con le sue stesse caratteristiche, fisiche e caratteriali) e Le indagini del detective Lynda Brown. Ha anche creato una serie di genere Legal thriller, ambientato a Seattle, USA: “Le indagini dell’avvocato Joe Spark”. Sulla scia dei mitici “gialli per ragazzi” degli anni ’60 e ’70, ha dato vita a una serie di Gialli Young Adult: Le indagini di Étienne e Annabella, dove due studenti universitari si cimentano a fare i detective.

Marcella Nardi ha anche scritto un romanzo mystery/storico dal titolo “Joshua e la Confraternita dell’Arca”, un paranormale, un romance/erotico e alcuni racconti. Ultimi lavori: “Virus – Nemico Invisibile”, Spionaggio/Thriller & Suspense e la seconda indagine della detective Lynda Brown, dal titolo “Io Non Dimentico”.

Il suo sito web ufficiale è: www.marcellanardi.com

La sua pagina autore su Amazon è: Clicca qui

La sua bacheca Facebook è:

https://www.facebook.com/Marcella.nardi.5

Il suo gruppo Facebook di Cultura e Libri:

https://www.facebook.com/groups/Marcella.nardi.scrittrice/

Post in evidenza

“Case” di Helena Molinari, Pentàgora

…“Si fugge dentro le case per fuggire la vita, trascurando quanto esse facciano i conti con la vita stessa, quanto esse siano ripiene delle presenze, ma anche delle assenze.”…Citazione tratta dal romanzo.

Ci sono molti modi differenti per viaggiare: c’è chi ha bisogno di una meta definita o, al contrario, di un viaggio senza destinazione; c’è chi insegue un sogno, una nuova esperienza, un brivido; chi si merita riposo e svago; chi fugge e ha necessità di respirare un’aria più nuova, tersa, libera.

Chiara, la protagonista dell’ultimo romanzo di Helena Molinari, pubblicato da Pentagora, fa parte di quel gruppo di viaggiatori un po’ spaesati, coloro i quali stanno per affrontare uno dei passaggi più delicati di sempre: la scelta della propria casa.

Helena Molinari ci porta in una epoca contemporanea: Chiara ha perso il padre, vittima della pandemia e della solitudine che essa ha generato, un padre che le ha lasciato una casa in Alto Adige, una delle tipiche abitazioni in pietra, profumata di legno e di erbe aromatiche. Chiara ha perso anche “l’innominabile”: l’uomo che faceva parte della sua vita ma che, approfittando del lockdown e del distanziamento sociale, si è allontanato da lei. Vive a Milano, si occupa di redazione editoriale, ha una zia che vive a ridosso del mare, in Liguria, in una casa che profuma di focaccia e torta di riso.

Il tema chiave dell’intera trama è racchiuso in una lettera che Chiara riceve da suo padre: cerca il luogo che chiamerà “casa”, lo stesso che parlerà di te, ancor prima che sia tu a farlo. La protagonista, dunque, si muove nel testo portando con sé il bisogno di trovare un luogo che l’accolga e che la faccia sentire viva. Non è sola, Chiara, anche se all’apparenza potrebbe sembrare. Intorno a lei ci sono molti personaggi che hanno un ruolo ben preciso: quello di indicarle la strada, la direzione, la luce che cerca.

La voce dell’autrice è intima, dolce, poetica, ricca di suggestioni che ti restano addosso e che soddisfano la lettura; usa dialoghi brevi per ampliare le descrizioni vive ed esplora molti temi, oltre quello già menzionato, temi che diventano sfondo e riflessione, vista la loro complessità. Si sfiorano le difficoltà economiche legate al lockdown, le restrizioni e il bisogno concreto di trovare soluzioni alternative per evitare il peggio; si legge la spiritualità cara all’autrice che, in quest’opera, trova le sue risposte nella Basilica di San’Ambrogio, a Milano; ci si imbatte nel ruolo dei ricordi, della famiglia; della donna come amministratrice di sé, delle sue capacità di scelta. Infine i luoghi: la montagna, il mare, la città. Tre luoghi distanti che raccontano storie diverse, eppure così strettamente legate.

Il punto di vista gastronomico è un tripudio di sapori e aromi, tanti quanti sono i ricordi che essi stessi evocano: le mele, lo strudel, lo speck, i formaggi, il sidro; le meringhe, il panettone anche se non è Natale, la frutta fresca appena colta, la puccia, e molto altro ancora.

L’ultima nota positiva va dedicata al prodotto completo: la copertina, i ringraziamenti, una serie di illustrazioni bianco e nero che aprono alcuni capitoli e una originalissima concessione privata dell’autrice, nelle ultime pagine, fanno di “Case” un piccolo gioiello.

Consiglio di lettura. Leggete “Case” quando sentite il bisogno di fare un viaggio in alcune delle località più affascinanti del nostro Paese; quando vi sentite persi e avete bisogno di ritrovare la strada attraverso le cose più semplici.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice.

Helena Molinari (Chiavari, 1969). Scrittrice e conduttrice radiofonica. Ideatrice del Festival della Parola (Chiavari, dal 2014). Con Pentàgora ha pubblicato il romanzo Emma (2019).

Il sito internet della casa editrice è: www.pentagora.it

Post in evidenza

“Niente come prima” di Silvana Da Roit, Edizioni Convalle.

”… Cosa credi, i pensieri sono di tutti, anche se quelli dei bambini non fanno rumore. …”

Qualche volta vi sarà capitato di vedere un fiore sbocciare tra le faglie dell’asfalto. Vi sarà successo di osservare i suoi petali (bianchi per le margherite, dei più svariati colori per le viole) e vi sarete chiesti come la nascita, la crescita e la resistenza siano state possibili in un terreno tanto ostile. Domanda lecita e logica che non prevede una risposta, ma molte, tutte ricche di riflessioni, coincidenze, emozioni, commozioni e ingiustizie. Ho pensato a un fiore solitario, forte e di straordinaria bellezza, durante la lettura di “Niente come prima” di Silvana Da Roit, una delle ultime novità pubblicate da Edizioni Convalle.

Questo romanzo narra una storia tutta al femminile, lungo tre generazioni: Maria, Bianca, Miria, Ilaria. Maria è nonna, la sua è la tempra tipica delle donne che, durante il secolo scorso, ha dovuto affrontare il sacrificio, la solitudine, il silenzio; Bianca è una bambina che sembra conoscere le dinamiche dell’amore meglio degli adulti; Ilaria e Miria sono due anime distanti l’una dall’altra eppure straordinariamente vicine nei desideri e nelle ombre che solo la sopraffazione sa generare. Maria, Bianca, Miria sono tre donne per una famiglia e Ilaria è la luce, destino e opportunità, a voi la scelta. Proprio lei, Ilaria, un giorno, alla stazione, si ritrova coinvolta in un incontro casuale, incontro dal quale nella sua vita entra la bambina. La presenza di Bianca è decisa, semplice, dolce, autentica come solo quella dei bambini sa essere.

Ilaria – Lili – e Bianca ripiegano sulla piacevole sazietà che generano i dolciumi e il latte caldo per allontanare un dolore fresco e si lasciano avvolgere dal sapore confortevole della pizza per suggellare la loro amicizia che diventerà così forte e unica da far comprendere alla perfezione il concetto espresso dal titolo. Niente sarà come prima, e questa certezza ruota attorno a tutti i personaggi che partecipano alla trama. Non c’è modo di fermare la forza del cambiamento: l’autrice ha deciso che il Bene – quello vero che nasce dal Dolore – esiste. Per Lili inizia la rinascita e insieme alla sua nuova direzione ci sono risposte, c’è coraggio e desiderio di non arrendersi. Renata e Giacomo – gli amici di sempre– sono presenze indiscusse: la sera della farinata ci sono ricordi e sorrisi indispensabili per guardare avanti e per gettare le basi di un futuro insieme, più determinati a restare ancorati alla vita e alle sue discese impervie.

Silvana Da Roit spinge il lettore in una trama commovente: l’innocenza violata, il dolore e il sacrificio di essere madre, la violenza e l’impotenza, i segreti e i silenzi, il tradimento e la violenza fisica nonché psicologica. C’è poi il migrare in un viaggio che corre lungo l’Italia: Roma, Bologna e la Carnia dove i personaggi esplorano luoghi e ricordi per affrontare sé stessi, le proprie frontiere, e convinzioni.

In tutto questo l’autrice, attraverso una scrittura travolgente, calda, fluida ed emozionante, accende fiamme, luci, devia i destini; spalanca i cuori e sparge solidarietà; dimostra che anche in situazioni estreme è l’Amore – sempre e il solo –  valore per cui vale la pena lottare. Sempre.

Consiglio di lettura. Leggete “Niente è come prima” quando sentite il bisogno di riaccendere una luce, una speranza, quando vi sentite persi, quando avete bisogno di ritrovare l’essenza di voi stessi.

Si ringrazia l’editore per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Silvana Da Roit è nata nel 1960 a Domodossola, nella provincia del Verbano Cusio Ossola. Dal 2015 scrive articoli sul sito “I racconti del viandante”, storie della valle Ossola per parlare della sua terra. Nel 2019 decide di seguire il Laboratorio di Scrittura Creativa di Stefania Convalle e nel 2020 partecipa al Premio Letterario “Dentro l’amore” ottenendo una menzione speciale. Ha pubblicato nel 2020 “I tunnel di Oxilla”, il suo primo romanzo.

Il sito dell’editore è: http://www.edizioniconvalle.com

Post in evidenza

“Sorelle 2.0” di Marcello Morgera, Pathos Edizioni.#boodinterviste #boodperglialtri

Raccontare storie è un bisogno? Scrivere racconti è una necessità, una sorta di dovere verso i personaggi e la trama? Mi piacerebbe conoscere il vostro parere, cari lettori, perché questa è una delle domande fondamentali alle quali, secondo me, uno scrittore dovrebbe rispondere. Il mio parere è senza dubbio che sì, sono le storie a chiamare gli scrittori e non il contrario. Mi piace immaginare le voci dei personaggi, gli intrighi che si celano nella costruzione del loro percorso all’interno della trama, del loro passato che si affaccia a volte in modo diretto altre volte in maniera più velata, i loro dialoghi che alimentano la narrazione e, in tutto questo, vedo lo scrittore come un mezzo attraverso il quale una semplice trama diventa una storia completa.

Leggere “Sorelle 2.0” di Marcello Morgera, edito da Pathos, ha sigillato questa mia convinzione.

Prima di scendere in profondità sul ruolo dell’autore, però, vi propongo una breve nota sul romanzo. Siamo in un’epoca moderna, a Roma, ma la trama è iniziata da lontano, durante la guerra dei Balcani, dove un gruppo di militari trova una bambina, nel pieno di una scarica di bombe. Le bambine sono due in realtà, ma solo una di loro verrà adottata da Attilio Martinelli, ora Generale dell’Arma, all’epoca a comando delle operazioni sul campo. La bambina, ora donna, è Angela, un personaggio costruito con grazia e determinazione, che ti conquista all’istante. Anche lei ha scelto l’Arma, per mestiere, ed è coraggiosa e ribelle. Mentre la trama viaggia, il lettore s’imbatte in Gabriella. Lei è una donna che sta subendo violenza, che vive nella paura e nella povertà più dura da accettare. Il legame è palpabile, vicino, potrebbe sembrare ovvio, e proprio per questo l’autore ha creato un intreccio ben riuscito e molto gradevole che non ha nulla di banale, anzi.

“Sorelle 2.0” racconta una trama originale con una scrittura originale e, a mio avviso, molto coraggiosa.

Ora, però, vorrei passare la parola direttamente all’autore che ha accettato l’invito a raccontarci il suo progetto.

Buongiorno Marcello. Benvenuto, raccontaci qualcosa di te.

Valeria buongiorno a te e buongiorno a tutti coloro che ti seguono con affetto. Sono una delle persone più “normali” di questa terra, parlare di me è una cosa estremamente facile, se non addirittura banale. Sono il classico padre di famiglia, e marito totalmente innamorato perso da quasi trent’anni della stessa unica donna, da cui trae ispirazione e fonte di vita. Oltre gli affetti, nella mia vita ho due grandi passioni (se non veri e propri bisogni): la prima sono i libri e la letteratura in generale; la seconda è quella per le cause perse quando sembrano irrimediabilmente perse. Ecco perché le mie storie si snodano sempre sulla tematica dei diritti civili, soprattutto quelli negati alle donne. Molte volte chi si dedica ad una causa persa e colui che non ha idea che sia persa, ed è così sprovveduto ed inconsapevole, che in rari casi riesce a cambiarne l’esito. Ecco io spero e mi batto affinché un giorno non ci siano più donne violate nel corpo o nell’anima.

Dopo aver letto la scheda introduttiva del tuo libro, e per tutta la durata della lettura, ho pensato a quanto sia vero il fatto che scrivere una storia sia un’esigenza. Vorresti raccontare ai lettori la tua esperienza e perché questo progetto è così importante per te?

Questo progetto per me è molto importante per due essenziali risvolti. Il primo, come ho accennato prima, è il rispetto dei diritti delle donne (calpestati brutalmente da tempo immemore), il secondo è a carattere un pò più  personale e si lega a quelle patologie, oggi comunemente chiamate, disturbi specifici dell’apprendimento  “DSA”, con cui anch’ io convivo. Molte volte chi è affetto da DSA, non essendo compreso, si allontana dalla cultura, o peggio dalle scuole, ed è questo il principale motivo per cui ho voluto presentare al pubblico questa opera in maniera non del tutto editata e lasciando in evidenza alcune imperfezioni che contraddistinguono noi DSA. Del resto come ho detto, io sono un amante delle cause perse, e quando mi è stato ripetuto, più volte sarcasticamente, che le donne non hanno bisogno d’aiuto e che un autore dislessico è una cosa che in natura non esiste, io ho risposto che in natura non esisteva nemmeno un compositore sordo, (lungi da me di paragonarmi con il grande Beethoven ) ed ho sentito forte l’esigenza di dire – o meglio di scrivere –  ciò che io penso. Il riscontro che ho avuto mi rincuora e mi fa ben sperare, perché mi ha dimostrato che le persone sono molto meno superficiali di quanto le si dipinga.

Come e quando hai avuto l’ispirazione per questo tuo romanzo?

Purtroppo i casi di maltrattamento che ho letto sono davvero tanti, tra questi, due mi hanno ispirato in modo particolare. Il primo era quello di una giovane donna montenegrina, che dopo aver vissuto gli orrori della guerra ed essere rimasta sola con sua sorella minore, si è ritrovata a vivere gli orrori di una relazione distruttiva, perché legatasi inconsapevolmente ad un compagno violento. La seconda scelta, più che a un caso di maltrattamento, mi è rimasto impresso per la risposta d’aiuto che hanno dato le forze dell’ordine, nello specifico i Carabinieri, ad una donna perseguitata ed in pericolo di vita. Non potendo agire a tutela della vittima per via istituzionale, un gruppo di appartenenti all’arma, finito il loro turno di lavoro, hanno stazionato per più di un anno, assolutamente non retribuiti, sotto casa di lei, fin quando il giudice non ha potuto definitivamente allontanare l’aggressore. E da questo intreccio è nata l’idea di SORELLE 2.0.

Ho percepito rispetto e stima nei confronti della donna e nel quadro generale emerge la tua grande sensibilità narrativa. Vorresti raccontarci qualcosa a riguardo, magari una curiosità circa la creazione del personaggio di Angela e/o Gabriella?

In realtà, Angela e Gabriella rappresentano ciò che per me è la donna nel suo intero essere, la forza di superare limiti ed ostacoli, di non arrendersi mai e, soprattutto, ho cercato di mettere in luce un tratto tutto femminile –  che ahimè – è molto carente se non a tratti inesistente in noi uomini, ossia il puro e nobile SPIRITO DI SACRIFICIO. Ovviamente qui ho avuto gioco facile perché, per costruire sia Angela che Gabriella, mi è bastato guardare negli occhi di mia moglie.

Avrai notato l’#boodperglialtri, sotto al titolo del tuo romanzo. Come sai, in questa sezione raccolgo le opere i cui diritti (anche parziali) vengono devolute in beneficienza. Il tuo è uno di questi. Vuoi parlarci di questo ulteriore progetto-nel-progetto?

Sì, con molto piacere. A dire il vero questo è uno dei fattori che ha contribuito a legare me e Pathos Edizioni (nelle persone di Luigia Gallo, Claudio Sturiale e Davide Denegri). Loro sono delle splendide e solidali persone, e di comune accordo, come è giusto che sia, si è deciso di dare una mano ha chi ne ha più bisogno. Anche quando si è parlato di progetto DSA a favore dei giovani, loro sono stati subito concordi e partecipi con la mia idea, ed insieme abbiamo dato forma ad un progetto mai realizzato prima, senza mai minimamente porci il problema di non essere capiti da una parte di lettori che pretende una forma letteraria impeccabile, e anche  per stimolare ed aiutare una persona affetta da disturbi dell’apprendimento: bisogna aiutarlo a credere fortemente in se stesso. Quale migliore messaggio potevamo dare, se non quello che alcune volte bisogna saper andare oltre la forma per apprezzare il contenuto? Ovviamente è di assoluta importanza ribadire che i giovani con disturbi del tipo DSA devono sempre avvalersi dell’aiuto di professionisti che operano in questo campo.

Hai a disposizione uno spazio per lasciare un messaggio ai lettori che ti conoscono e a chi ancora non ha letto i tuoi romanzi.

Ho già ampiamente parlato del messaggio che cerco di lanciare nei miei scritti, che in definitiva si lega al rispetto dei diritti umani, per cui voglio concludere lanciando un ulteriore messaggio, che è quello dell’incentivo alla lettura e rimarco questa cosa perché davvero ci credo molto.

Leggete, leggete, leggete! Non importa se sceglierete Marcello o qualsiasi altro autore, ogni volta che regalate o leggete un libro, state arricchendo non solo voi stessi, ma anche me e tutto il mondo, perché la cultura è davvero l’unica cosa che ci rende liberi.

Si ringrazia l’autore per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autore:

Marcelo Morgera, nato il 20 giugno del 1972, a Cava de’ Tirreni. Da sempre risiede in una cittadina della provincia di Salerno, che l’autore ha molto a cuore, Nocera Inferiore. Città che più volte lo ha sostenuto e incentivato per il suo impegno sociale, soprattutto a favore dei diritti civili negati alle donne e contro la violenza di genere. Amante assoluto dei libri, e storico, tema a cui non ha mai smesso di dedicarsi.

Il suo primo romanzo UNA DONNA TRA DUE MOSTRI, sempre sulla scia della tematica violenza di genere, ha ottenuto non pochi riconoscimenti, facendolo conoscere da una buona fetta di pubblico che come lui ama pensare che uno scrittore, non sia né più né meno che un sognatore che ha avuto la fortuna di saper trascrivere i propri sogni.

Il sito web dell’editore è: http://www.pathosedizioni.it

Post in evidenza

“Solo cinque” di Gaia Valeria Patierno. #boodinterviste – #boodperglialtri

C’è una figura professionale che è nata per soddisfare i sogni dei bambini: è la Baby Party Planner. Si tratta di un professionista che si colloca tra il Wedding Planner e il più generico Party Planner ma, appunto, vista la categoria di utenti alla quale si rivolge, questa figura, negli anni, si è specializzata, affinando le mansioni al fine di rispettare e garantire le richieste e i desideri dei più piccoli. Starete immaginando palloncini festosi a forma di unicorno o torte a strati a forma di astronavi o automobili, festoni allegri e luci colorate… sì, è proprio così. Questa professione rappresenta a tutti gli effetti l’ilarità, l’innocenza, i sorrisi e la spensieratezza e, non credo sia un caso, che sia stata usata in “Solo cinque” di Gaia Valeria Patierno.

Irene, la protagonista, è mamma di due gemelli di tre anni prossimi all’ingresso alla scuola materna, è fedele moglie di Mauro, e si è costruita un’attività indipendente che gestisce con impegno. Il suo mondo è fatto di zucchero, cacao, farina, nuove idee e allestimenti all’alba, di una moka gorgogliante e di colazioni avvolgenti, di merende al parco e di gelati che consolano come solo sanno fare. Questo è il mondo in cui lei appare, si muove, si sveglia, chiede a sua madre quel pasticcio che rende i pranzi speciali. Ma un mondo non basta, a volte, ed è proprio questo che accade a Irene. Mentre la vita le ruota attorno, lei mette un piede fuori dal cerchio: inizia a concedersi un brivido alcolico, a sfidare lo sguardo superficiale di Mauro, a domandarsi se sia giusta, quella solitudine, il bisogno di scoprire il suo ruolo diventa sempre più solido e reale mentre un’ossessione s’impadronisce di lei, l’avvolge, la spinge in una direzione che la confonde. La spinta, tuttavia, è troppo forte per essere domata: Irene diventa presto qualcuno che non avrebbe mai pensato di poter diventare.

L’autrice ha creato un mondo parallelo, occulto, violento, eroico, nel quale la giustizia e l’ingiustizia corrono lungo il ciglio di un burrone, nel quale la verità e la bugia si scambiano di posto e nel quale le vittime e i carnefici s’incontrano sulla stessa strada. Il ruolo della donna, inoltre, è narrato attraverso ruoli e posizioni: c’è la maestra dei gemelli – ambigua e gelida –, la mamma di Irene – pilastro tenace – e Sofia – energica e sicura di sé. In questo stesso mondo l’autrice, con coraggio e ardore, ha scelto di spingersi tra le ombre della violenza nel mondo dell’infanzia.  Il risultato è un libro complesso ma originale, la cui lettura, a volte, diventa gravosa, non certo per lo stile narrativo, quanto per le domande e le emozioni che scaturiscono, le stesse che sono opera di una penna di grande talento.

Dopo questa premessa, vi voglio portare a conoscere l’autrice che, con grande disponibilità, ha accettato di rispondere a qualche domanda.

Buongiorno Gaia Valeria e benvenuta. Raccontaci di te.

Ciao io sono Gaia, ho 47 anni, sono sposata e ho due bimbi, di 10 e 6 anni. Lavoro da anni in un Ministero e per passione … mi sono scoperta autrice!

Innanzitutto, vorrei che ci raccontassi come e dove hai trovato l’ispirazione per “Solo Cinque”.

La storia da cui prendono spunto gli avvenimenti di Solo Cinque è realmente avvenuta nell’estate del 2019 a pochi passi da casa mia. Come Irene, la mia “eroina”, anche io sono rimasta spiazzata da un evento così brutale e ne è scaturita, a poco a poco, l’intera trama del libro. Del resto, non solo la vicenda della bimba gettata nel fiume è reale ma lo sono tutte le storie narrate nel romanzo tranne, ovviamente, quella dei protagonisti, che lo è solo in minima parte. Sono tutte vicende di cronaca nera italiana, alcune tristemente note e facilmente riconoscibili.

Ho introdotto la professione di Irene. Ho inteso la tua scelta di affidarle questo ruolo così festoso e gioioso per “bilanciare” la brutalità nella quale lei si ritrova protagonista. È giusta, questa mia osservazione?

Sì, hai colto nel segno e, inoltre, c’è dentro anche un elemento fortemente autobiografico… Proprio sabato scorso alle 7 di mattina io stessa annodavo palloncini sotto il gazebo di un parco pubblico per il compleanno del mio figlio minore…

Nel libro tratti anche il tema del lavoro delle mamme, un tema sempre molto attuale perché pone in essere il principio del conflitto eterno che investe le donne. Ci vuoi dire qualcosa in più?

Il mio libro si sofferma sulla condizione femminile, la donna all’interno della famiglia, ad una prima lettura sembra inneggiare fortemente all’emancipazione poi, però, se ci si addentra ci si rende conto che la stessa Irene … non ha cognome, se non quello del marito!

Forse le catene che stringono certe realtà sono più radicate di quanto si pensi …

Quali sono le tue passioni, oltre la scrittura?

Realizzo cake design per le feste di bambini e mi piace allenarmi in palestra, sono una piccola Irene anche io!

Raccontaci, se puoi, i tuoi prossimi progetti letterari e non.

Solo Cinque ha un suo seguito che si chiama Lo Spettacolo, che è uscito il 28 agosto scorso e sta seguendo brillantemente le orme del suo predecessore; sto lavorando a un breve spin off natalizio che spero di riuscire a portare a termine, ma non dico di più per scaramanzia.

Ci tengo a ricordare che tutti i miei romanzi devolvono la totalità dei proventi in beneficienza, a vantaggio delle famiglie di bambini affetti da malattie rare o gravi disabilità; nel corso del 2020 abbiamo raccolto circa 15000 euro per un totale di quasi 5000 copie vendute tra cartaceo ed ebook. Spero di bissare questo successo anche quest’anno.

Lo speriamo anche noi!

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Gaia Valeria Patierno nasce a Roma nel 1974. Nel 1992 consegue il diploma di liceo classico, successivamente si laurea tre volte: nel 1998, in giurisprudenza, nel 2004 in politiche pubbliche e nel 2006 in pubblica amministrazione. Dal 2001 è specialista del settore giuridico presso il Ministero della Salute. È sposata e madre di due figli. Il suo romanzo di esordio è “Solo Cinque”, pubblicato nel luglio 2020 e collegato a un progetto di solidarietà che ha devoluto tutti i proventi a bambini affetti da gravi disabilità o patologie rare. “Lo Spettacolo” è il seguito del precedente romanzo e sposa la stessa causa.

Post in evidenza

“Tutto il bene, tutto il male” di Carola Carulli, Salani Editore

Siete stressati? Dormite poco e il vostro sonno è spesso agitato? Siete protagonisti di risvegli arrabbiati e giornate pesanti come una coperta bagnata sulle spalle a ferragosto? C’è un rimedio naturale che forse non avete ancora provato: latte caldo e vaniglia la sera, prima di coricarvi. Consiglio valido sempre: non esagerate con la bevanda e in caso di allergie presunte o sospette contattate il vostro medico, altrimenti il risultato che otterrete sarà una notte tutt’altro che lieta. La vaniglia è un frutto della terra che è di uso comune, pur essendo piuttosto costoso per via della sua raccolta. La usiamo prevalentemente nei dessert e il suo aroma dolce e avvolgente è stato elaborato da molte case cosmetiche, per la realizzazione di profumi e prodotti di vario genere, anche per la casa, pensate alle bacchette di incenso, alle candele o ai detersivi. Insomma, potremmo dire che la vaniglia – dal Messico, suo paese d’origine – è riuscita a conquistare il Mondo, a suon di scie profumate e sapori caldi. Se ora vi dicessi che è stata usata anche per un libro, come reagireste? Non intendo in senso letterale, ma mi riferisco a un filo conduttore che è stato adattato con grande abilità e che ha saputo emergere con dolcezza negli attimi più coinvolgenti della narrazione.

Non vi è chiaro? Forse lo sarà dopo aver letto la seguente citazione, tratta direttamente dal libro: una delle ultime pubblicazioni dell’editore Salani intitolata “Tutto il bene, tutto il male” di Carola Carulli.

 “…Quando apro i suoi libri c’è quel profumo di vaniglia, se lo faceva preparare apposta da una specie di alchimista fiorentino che aveva una bottega puzzolente tanto era profumata…  Ne ho ancora due boccette, una è sigillata, l’altra l’annuso quando mi manca…”

Siamo solo a pagina dodici… e continuando la lettura, il legame tra il personaggio a cui si riferisce la voce narrante e un profumo che la contraddistingue diventa ancora più forte.

I personaggi che compongono la trama sono raccontati attraverso la voce diretta e istintiva di Sveva: una giovane donna divisa tra la ricerca di sé, lo studio, il teatro e i rapporti famigliari non proprio semplici. Sarah è sua madre, una donna che vive di silenzi e abiti firmati; il nonno Emanuele intelligente e fiero e Alma, la zia ribelle. C’è suo padre, il cui legame è bloccato da distanza e indifferenza; Dafne la stravagante amica di Alma e altre anime, ognuna con il proprio ruolo ben preciso. Ruolo che non intendo svelarvi.

La narrazione è composta da un’alternanza di capitoli brevi che rendono la lettura dinamica, empatica. Sveva è in preda al bisogno impellente di raccontare il suo rapporto con Alma e così ti trovi catapultato in una storia in cui un personaggio dipende direttamente dall’altro. Sveva racconta di sé attraverso Alma: ci sono i periodi nella villa al mare dove la libertà, il sostegno e la presenza sono ovunque; le confidenze a base di uova al bacon; i bicchieri di vino che spezzano la solitudine; la carbonara per raccontare un viaggio e le trattorie per avvertire quel calore tipico delle cose semplici. Sveva spiega, si arrabbia, mostra tutta la sua delusione, il suo rancore, l’amore che prova per Alma attraverso una delle strategie narrative più emozionanti: i ricordi. Sono come una valanga, questi suoi ricordi: invadenti, coraggiosi, sinceri. E poi c’è il futuro: una luce in lontananza che Alma vede prima di Sveva.

Carola Carulli affronta il tema della maternità e della genitorialità senza sconti. Non ha lesinato sul distacco, sulla perdita (quella più definitiva di sempre), sulle incomprensioni, sulla possibilità di essere madri fuori dai canoni prestabiliti. Non si è risparmiata sul significato di famiglia: un ampio mondo in cui l’amicizia, il sostegno e l’amore coesistono. Non ha dimenticato il rapporto che genera il passato all’interno del futuro, né il bisogno di appartenere, di trovare le risposte, di accettarsi, di accogliere le fragilità, di ascoltarsi e di saper ascoltare. Infine, l’autrice è riuscita a raccontare il coraggio di vivere e di uscire dagli schemi per essere sé stessi fino in fondo. Ci è riuscita lasciando libera Sveva di esprimersi, di vagare tra i ricordi lontani e vicini, nella quotidianità e nei sogni, nella speranza e nel fallimento e tra le dolci note della vaniglia che hanno invaso – con estrema dolcezza– la narrazione.

Consiglio di lettura. Consigliato a chi ama le storie di famiglia – complesse e non lineari (sempre che ne esistano); a chi ama la narrazione intima, in prima persona e non convenzionale, empatica e libera; a chi ama la commozione che solo le storie al femminile sanno suscitare.

Si ringrazia l’ufficio stampa per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Carola Carulli è giornalista, si occupa di cultura da molti anni. È conduttrice del Tg2, cura le rubriche Achab e Tg2 Weekend dedicate alla lettura. Segue come inviata i più grandi eventi musicali, letterari e cinematografici. È autrice di diversi documentati.

Il sito della casa editrice è: http://www.salani.it

Post in evidenza

“Nomadland – Un racconto d’inchiesta” di Jessica Bruder – traduzione di Giada Diano – Edizioni Clichy

“… La verità, per come la vedo io, è che le persone sono capaci di lottare e allo stesso tempo di conservare il proprio ottimismo, anche davanti alle sfide più dure. Non significa negare la realtà. Piuttosto, dimostra la notevole capacità del genere umano di adattarsi, di cercare un significato e un senso di affinità di fronte alle avversità…”

Le parole che avete appena letto sono tratte da “Nomadland” di Jessica Bruder, edito per il nostro paese da Edizioni Clichy e tradotto da Giada Diano: non è un caso che io abbia scelto di iniziare l’articolo con questa citazione. Ne ho selezionate molte, in verità, durante la lettura e come faccio d’abitudine ormai, ma, nonostante ciò, anche dopo l’ultimo capitolo, sono tornata, ancora, su questo concetto che, per me, rappresenta “Nomadland”.

Jessica Bruder, giornalista statunitense nativa della East Cost, è l’ideatrice di un’inchiesta coraggiosa: vivere a bordo di un van e guidare lungo il territorio americano per narrare la vita di un infaticabile gruppo costretto alla vita nomade. Un genere di persone che si inserisce in un contesto ben preciso: sono coloro i quali hanno subito gli effetti più devastanti della crisi economica. Sono laureati, professionisti, dipendenti, imprenditori. Sono uomini, ragazzi, nonne, coppie, single. Gente normale, insomma, con un futuro diverso da ciò che avevano immaginato. Persone che si sono trovare a dover prendere una decisione: abbandonare la propria casa per sopravvivere.

La voce della giornalista è la presenza costante dell’opera: è un timbro che irrompe, narra e trascina. Il racconto è fedele, come lo sono le storie d’inchiesta: ci sono cifre, statistiche, luoghi, annotazioni, ma questo non interrompe – anzi accentua – la conferma che tutto ciò che hai tra le mani è reale, tangibile, provato. Questo aspetto mi ha coinvolta, molto più di quanto vorrei ammettere. Perché “Nomadland” è una costruzione di esperienze, di anime, di vite che sono state realmente lì, in quell’ambientazione, in quel tempo. Loro hanno davvero sofferto, si sono rialzati, si sono inventati un nuovo modo di abitare per continuare a esistere.

Nei primi passaggi dell’opera incontri lei, Linda May, la donna che si è prestata come personaggio chiave dell’inchiesta: una donna forte, sorridente, intelligente, colta, instancabile, ingegnosa. Un’anima che ha deciso di intraprendere un viaggio nomade per non essere di peso alla sua famiglia e per portare a termine un sogno: risparmiare denaro per costruire una Earthship (una casa a energia zero, totalmente indipendente, provvista di un orto). L’amicizia tra Jessica e Linda non è scontata eppure nasce, cresce, si rinforza fino a diventare un sentimento solido, attivo. Loro percorrono strade pericolose, dormono sotto lo stesso cielo, dividono uova, bacon, verdure e tortilla. La semplicità e la resilienza di Linda diventano gli ingredienti perfetti per alimentare, di continuo, il loro rapporto di stima e fiducia.

L’amicizia e il sostegno sono entrambi elementi che ricorrono spesso, nell’opera. Durante i viaggi, all’arrivo nei campeggi per i lavori stagionali, o nei magazzini, la forza del gruppo dei workamper dirompe. Mi sono convinta – ancor più –  di quanto sia indispensabile tendere la mano, a volte afferrarla, e tutto questo non ha nulla a che vedere con la debolezza, anzi, è forse vero il contrario: la forza sta nel fare rete, soprattutto quando la situazione è precaria.

La precarietà è un ulteriore pensiero che mi ha accompagnato durante la lettura. È la netta sensazione di essere sul ciglio del burrone, laddove è sufficiente un passo falso e si cade nel vuoto. La precarietà che si racconta in “Nomadland” è, però, come una moneta: ha un doppio aspetto che durante la narrazione esplode in forma piacevole, per la narrazione stessa, e di particolare rilievo per la sorte della community. Si tratta di una forma di unione, di spinta, che genera un equilibrio che non ti aspetti: tutti – e dico tutti – i workamper sono legati da un unico grande sistema che – come ho scritto nel paragrafo precedente – emerge con forza. In sostanza, appare evidente il bisogno di accettarsi, sostenersi, aiutarsi. Perché il baratro è lì vicino, e tutti ne scorgono il profilo ingiusto.

Questo costante moto di collaborazione torna puntuale, durante l’intera narrazione, come la raccolta delle barbabietole, un evento che genera il viaggio di centinaia di lavoratori stagionali che, sulle loro case mobili, oltre a lavorare, si uniscono per studiare un metodo di risparmio alternativo; leggere blog ricchi di suggerimenti pratici su come affrontare l’inverno seguente, e si ingegnano per tutelare la propria salute al fine di evitare incidenti o malattie perché ammalarsi significa, inevitabilmente, perdere l’unica opportunità di lavoro.

Questi sono solo alcuni dei temi che “Nomadland” ha esplorato, ce ne sono molti altri per cui vale la pena una sana riflessione: la disparità, i rapporti familiari, i sogni, la paura, il tormento, il diritto, l’appartenenza a un gruppo e a un luogo, le denunce, i soprusi.

Converrete con me: ci sarebbero tutti gli ingredienti per una trama dal sapore amaro, pietoso, irrisolto. Indubbiamente la drammaticità degli eventi è commovente, ma l’autrice – complice anche il sorriso di Linda che non si vede ma si avverte – è riuscita a bilanciare le emozioni e i fatti in modo egregio, rendendo la speranza e la sfida qualcosa in cui credere, fino in fondo. Qualcosa che ti fa pensare che il senso di ottimismo nella citazione non è follia, ma anzi un valore da conservare e divulgare.

Nota: la trasposizione cinematografica di “Nomadland” ha ottenuto una serie di riconoscimenti, tra i quali: vincitore di tre Premi Oscar 2021 (Miglior Regia, Film e Attrice), vincitore del Leone D’Oro 2020, del Golden Globe 2021, del BAFTA. 2021. Tra i premi vinti dall’opera narrativa si ricorda il Discovery Award 2017.

Nota biografica dell’autrice:

Jessica Bruder è una giornalista che si occupa di sottoculture e questioni sociali. Per scrivere Nomadland ha vissuto per mesi in un camper, documentando la vita degli americani itineranti che hanno abbandonato la loco casa per vivere la strada a tempo pieno, unica via per non essere travolti da un’economia sempre più precaria, nella completa assenza di un welfare state. Il progetto ha richiesto tre anni e più di quindicimila miglia di guida – da costa a costa, dal Messico al confine canadese.

Il sito della casa editrice è: http://www.edizioniclichy.it

Post in evidenza

“Rinascere a Midsommar” di Elena Andreotti.

Quanto tempo è necessario per guarire dalle proprie ferite, quelle più profonde e taciute? Quali sono i mezzi attraverso i quali possiamo provare ad attuare la famosa svolta? Quali sono le spinte che ci inducono a prendere una direzione piuttosto che un’altra?

Queste sono solo alcune delle domande che ho affrontato durante la lettura di “Rinascere a Midsommar” di Elena Andreotti. L’autrice, questa volta in una veste insolita e molto diversa dai gialli tecnici ai quali ci ha abituato, racconta una trama che mi ha tenuta incollata alle pagine per un lasso di tempo breve ma intenso. Siamo in un’epoca moderna e Linda, la protagonista, si rende conto di aver vissuto (e di continuare a vivere) una vita schiava, tossica, dipendente. Un’esistenza che l’ha spinta all’angolo delle sue possibilità, tra ombre e incertezze e, forse per un consequenziale risultato, ad affrontare una malattia che la rende ancora più sola. Sarebbe facile abbandonarsi al dolore, ai silenzi, alla quiete della tristezza, ma lei è una donna che vuole vivere, che ha nel sangue la passione di esistere, che trova il coraggio di dire quel “no” che tante volte è stato taciuto. Linda ha una seconda possibilità: in Svezia, nel paese in cui ha trascorso le vacanze da ragazza, nella casa in cui la zia le aveva insegnato a dipingere e a essere felice.

Siamo di fronte a una storia moderna di rinascita – come del resto recita il titolo – è a tutti gli effetti l’autrice focalizza l’attenzione su molti degli aspetti che inducono a tale processo: il viaggio, la lotta contro i sensi di colpa, la sana attenzione verso sé stessi, la spiritualità e la tradizione, la motivazione, il bisogno di mettere distanza tra un passato malato e lo spiraglio di luce che si apre quando c’è speranza. Tuttavia, c’è un aspetto che mi ha colpito maggiormente rispetto a tutti gli altri, che restano comunque di grande spessore: la malattia di Linda. Non è mia intenzione svelarvi aspetti della trama che è giusto scopriate in autonomia, ma, nonostante ciò, il legame psicologico-emotivo nel quadro fisico generale, in questo contesto, diventa un tema nel tema. È una scoperta, una fase interessante, una rispettosa forma di riflessione che non mancherà di coinvolgervi.

La scrittura di Elena Andreotti si conferma completa e, anche in questo genere letterario, riesce a essere lineare e precisa così che la lettura procede senza intoppi. In generale, le descrizioni essenziali, le informazioni pratiche di cui l’autrice cita anche la fonte e l’intreccio tra i personaggi sono tutti fattori ben costruiti, a mio avviso.

L’aspetto gastronomico non delude: il lettore si aspetta di captare i sapori e i profumi di una terra affascinante come è la Svezia ed è piacevolmente accontentato. Ci sono gli sgombri conditi con salsa di mirtilli che compongono una delle cene a base di ricordi; decotti misteriosi che aprono la mente e il cuore; un picnic per celebrare la tradizionale e propizia festa di Midsommar a base di polpette, salmone, aringhe, fragole e acquavite.

Non è tutto. Linda resta legata al suo passato perché non tutto è da archiviare. Cosi la pasta, il vino bianco, il caffè sono sapori che continua ad amare.

E proprio attorno all’Amore l’autrice tesse la sua trama, e riesce bene a trasmettere ciò che la protagonista prova. Non aspettatevi, però, la magia delle favole: per Linda il viaggio sarà costellato di rinunce, domande, riflessioni, strappi, lacrime, certezze e delusioni.

Nel complesso, “Rinascere a Midsommar” è una lettura che mette in evidenza tratti psicologici di grande rilievo attraverso una narrazione delicata e sublime.

Consiglio di lettura: Inserirei questa lettura nella mia casella personale “evergreen”: per la scelta stilistica, i temi affrontati e la magia che si sprigiona è un libro che può essere letto in qualsiasi “stagione” della vita. Una lettura al femminile che sarebbe appropriata anche per un pubblico maschile.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura inviato in omaggio e per la foto copertina.

Nota biografica dell’autrice:

Elena Andreotti è sociologa con perfezionamento in bioetica. Ha lavorato per circa venti anni nella P.A. dove si è occupata a lungo di informatica, partecipando a progetti riguardanti il sistema informativo aziendale e curando la formazione dei colleghi. Attiva nel volontariato, attualmente cura la formazione dei volontari.

Ha collaborato per una decina d’anni con un periodico locale, occupandosi della rubrica di bioetica.

Appassionata di pittura, fotografia e macrofotografia che pratica dilettantisticamente, ma con buoni risultati. Lettrice onnivora, predilige la letteratura ‘gialla’ e fantascientifica classica.

Da circa due anni scrive libri gialli, pubblicati su Amazon. Da poco si è cimentata in un sick_romance.

Libri già pubblicati

Li trovate nella Pagina autore di Amazon

Post in evidenza

“Amare una volta” di Davide Mosca, Salani Editore.

L’autunno è arrivato, e con lui i colori caldi della Terra: l’arancio deciso delle foglie, le sfumature intense dei sempreverdi, la scia della nebbia che scende calma e il cielo azzurro che cede spazio ad albe, tramonti e a nuvole talvolta dense.

Questa è una delle stagioni più celebrative, in termini naturalistici, e uno dei luoghi dove l’Uomo può ammirare al meglio lo splendore è sicuramente il bosco: un ecosistema affascinante, quasi mistico, dove la calma e il silenzio fanno da padrone e dove ogni vita ha un suo spazio definito. Il bosco che si sviluppa tra le colline, poi, in autunno ma non solo, esprime un fascino ancora più autentico: pensate a quei saliscendi naturali che ricordano un andamento simile alla vita, alle ombre che si avvicinano e si allontanano dal sole che rimandano a gioie e dolori e, anche, quel paesaggio che, da lontano soprattutto, cattura lo sguardo spezzando la monotonia della pianura per dimostrare che abbiamo bisogno di stimoli, di cambiamenti.

Il bosco, la collina, i colori e i profumi sono alcuni dei protagonisti del romanzo “Amare una volta” di Davide Mosca, edito da Salani: siamo nelle Langhe, un territorio che, data la sua naturale bellezza, è diventato Bene protetto dall’UNESCO. La struggente presenza di questo luogo è – appunto – una costante: l’autore ha usato una scrittura descrittiva, ricca di particolari, quasi fotografica: il risultato è un quadro nel quale il lettore s’immerge e, nella sua natura semplice e visiva, resta fino alla fine. Il luogo è sempre lì, accanto al lettore, nelle pagine che si rincorrono, nella lettura che ti avvolge e che ti arricchisce.

Se l’area naturale è uno degli aspetti che maggiormente ho percepito, la casa è uno degli altri luoghi che non dimentichi facilmente, quando hai terminato questo romanzo. Si tratta di un ambiente grande, dove la cucina è il fulcro della famiglia, dove la famiglia fonde le sue origini. La casa è come un faro – e come potremmo esprimere il contrario – e, anche in questo, l’autore esprime una notevole delicatezza narrativa: le descrizioni saziano e i sentimenti che nascono sono di spessore, autentici, e rispecchiano l’essenza dei personaggi che ci vengono raccontati da una voce senza eguali. Lei è Virginia – Ginia – ed è lei che conduce il lettore nella sua famiglia, i Costamagna, nella sua casa, una grande villa attorno alla quale ci sono filari d’uva e bacchi da seta, alberi da frutta rigogliosi e orti da curare, nella sua terra, quel basso Piemonte che a ridosso della fine della seconda guerra mondiale era ancora un punto nascosto ma strategico.

L’ambientazione temporale, lo avrete capito, è proprio la metà del secolo scorso quando il nostro Paese soffriva perdite umane e povertà, quando il benessere di un tempo era stato reso nullità a causa del conflitto mondiale (come è successo alla famiglia di Ginia) e le donne erano una forza indispensabile, anche se loro non ne erano consapevoli.

Il ruolo delle donne, in questo romanzo, è un tema che ritroviamo spesso e che, a mio avviso, è stato trattato con grande rispetto. In primis, la sensibilità dell’autore che si cala nei panni di una voce narrante femminile è stata una gradevole scoperta (scoprirete da soli l’immensa empatia di Ginia). L’autore, infatti, non ha timore di affrontare il suo personaggio: asseconda la sua ribellione, traccia la sua furbizia, narra i suoi ricordi, accende il suo desiderio ed esprime ogni sua riflessione. Il tutto con semplicità e naturalezza e, così facendo, la narrazione risulta omogenea, fluida. C’è poi un altro personaggio femminile che ho amato: la mamma di Ginia. Sempre attraverso gli occhi della ragazza, conosciamo una figura matriarcale perfettamente in linea con il periodo storico: una fine intelligenza e uno spirito di adattamento da far invidia, un contenitore umano ed ermetico di confidenze e un cuore mite, inspiegabilmente. La sua presenza, la sua vicinanza, le sue parole dolci sono stati un altro gradevole incontro. La terza figura femminile è la Duchessa, la nonna di Ginia. L’altro lato dell’essere donna, direi. Una miscela di rigore e autorevolezza, di infelicità e strigliate gratuite, di solitudine e incomprensioni, di rammarico e nostalgie taciute.

“Amare una volta” potrebbe essere, al primo sguardo, una storia d’amore e per certi versi lo è. L’amore che travolge Ginia è certamente il perno del racconto, un amore acerbo ma totalizzante, come solo il primo amore sa essere. Tuttavia mi permetto di dire che parlare solo di amore, in riferimento a questa lettura, sarebbe riduttivo. I temi che ho letto meriterebbero, tutti, un articolo a parte: il ricordo degli avi che costituisce le nostre radici che, anche lontani, sono vivi; la violenza verbale e fisica che mette in luce situazioni di disagio; il ruolo della famiglia nella sfera sociale, comunitaria, e nei confronti dei componenti stessi; la crisi economica (che in ogni epoca torna, puntuale e severa); la libertà, la morte, la guerra (e non solo quella che si compie al fronte); l’istruzione e il sapere come diritto di ognuno; il futuro che qualche volta fa a pugni col passato e la voglia di riscatto; la felicità che crediamo ci debba appartenere e, infine, il bisogno di casa, quel bisogno che, ancora oggi, qualche volta, non trova la giusta definizione. Ne ho citati alcuni, ma questo spazio è davvero troppo esiguo per implementare l’analisi. Lascio a voi, lettori, la possibilità di scovarne altri e di apportare le giuste riflessioni.

Infine, la nota gastronomica. In un contesto letterario come questo, complesso e strutturato, i sapori costituiscono un aspetto irrinunciabile. Ci sono i frutti dell’orto e del frutteto: peperoni e fichi; i frutti della natura: i preziosi noccioli; i frutti del lavoro: le marmellate, le conserve, il moscato, il dolcetto e il barbera, il grano e i legumi. L’autore usa piatti di minestra per riscaldare la cucina resa gelida da uno degli interventi della Duchessa; vassoi di robiola e toma per far ritrovare l’appetito al padre di Ginia; colazioni a base di latte caldo e pane, per iniziare una giornata nuova e il brasato, a cena, per celebrare una giornata proficua.

Consiglio di lettura: “Amare una volta” è una storia di famiglia, densa di ricordi e sentimenti, ingiustizie e scoperte. Una trama gradevole, e un’ottima compagnia, in vista delle fresche sere d’autunno.

Si ringrazia l’ufficio stampa per l’invio della copia elettronica in omaggio.

Breve biografia dell’autore:


Davide Mosca è nato a Savona e vive a Milano, dove dirige la libreria Verso. Ha pubblicato vari romanzi, l’ultimo è Breve storia amorosa dei vasi comunicanti (2019).

Il sito internet dell’editore è: http://www.salani.it

Post in evidenza

“Dentro l’amore” di Stefania Convalle, Edizioni Convalle.

L’edizione 2021 del premio letterario “Dentro l’amore” sta per dirigersi verso la serata finale, durante la quale conosceremo titoli e autori vincitori. L’evento culturale, giunto ormai alla sesta edizione, è ideato da Stefania Convalle. La notizia, giunta qualche giorno fa sul Gruppo Facebook di Edizioni Convalle circa l’impossibilità di premiare i vincitori in teatro e di assistere a una serata in presenza, non ha certo impedito all’acuta Stefania di portare a portare a termine il suo intento: ha annunciato, infatti, con il giustificato dispiacere, che la serata finale sarà in diretta, proprio sulla pagina Facebook, e che non ci saranno più limiti ai posti disponibili. Insomma, siamo tutti (ma proprio tutti) invitati a partecipare a un evento che ci condurrà in racconti, poesie, fotografie e molto altro ancora.

“Dentro l’amore” è un titolo avvincente per un premio letterario, e lo è ancor più per una raccolta di racconti: Stefania Convalle lo scelse per la sua seconda opera edita da Demian nel 2013, e più recentemente, nel 2019, con una nuova edizione dalla casa editrice di cui è fondatrice.

Quando ho iniziato la lettura di questa raccolta, ho avvertito subito una forte componente sentimentale. Il titolo è un chiaro rimando al sentimento principe –  il protagonista indiscusso della storia della letteratura –e in apparenza potrebbe sembrare solo questo a coinvolgere il lettore. Non è così. Io l’ho capito subito, quando nel primo racconto, ho trovato questa frase “Non so se l’amore esista, ma esito io”. Ho letto e riletto, e ancora lo sto facendo mentre scrivo, questa frase. Breve ma complessa e, soprattutto, un insieme così vasto di significati che, con molta probabilità, non sono nemmeno riuscita a cogliere per intero.

La prima cosa che ho provato è stata quella punta di orgoglio che tratta spesso, la penna di Stefania. Non è arroganza né presunzione, semmai è il risultato di un viaggio che si presenta sempre arduo, articolato e mai semplice. L’amore, in fondo, è proprio questo: una sfida, un percorso, una perdita, un ritrovamento.

Una seconda osservazione è relativa alla consapevolezza di sé che, nelle opere dell’autrice, ho spesso ritrovato, tra le tante figure femminili che sono state protagoniste di vicende amorose dalla straordinaria complessità psicologica: tra i racconti di “Dentro l’amore” questa capacità deriva da un destino avverso, da prove, da viaggi fisici e mistici.

Una terza considerazione deriva dal verbo scelto: esistere. Un significato forte, determinante, perché esistere significa affermare la propria presenza nonostante tutto, anche se la vita ci ha messo davanti un muro, anche se noi, quel muro, non siamo certi di poterlo scavalcare. Eppure… esistiamo. Se siamo vivi, insomma, un motivo c’è. Ed è in questo che si trova la forza reattiva, la scelta, la destinazione, la ripartenza.

Non vi racconterò trame né vi presenterò i personaggi che brillano nell’opera. Non ho intenzione di farlo perché in ognuno di loro ho trovato una forza distinta, una determinazione all’esistenza che mi ha riportato, spesso, alla frase che vi ho evidenziato ed è giusto che i lettori che sceglieranno quest’opera ci arrivino vergini, senza influenze da parte mia.

Mi preme invece raccontarvi di come l’autrice abbia spaziato nelle tecniche di scrittura, creando così un patchwork narrativo di grande spessore: narratori che come un soffio di vento raccontano la storia di un uomo e di una donna (come accade per Anna e Ettore); la prima persona singolare, una delle più intime e personali, che esalta il considerevole lavoro psicologico che ha compiuto l’autrice (come nel racconto che chiude l’opera “Gli occhi non invecchiano mai”). Alcuni di questi racconti sono brevi e delineano una presenza maschile forte (“Amami” per esempio); altri seguono lo schema-libro e si compongono di prologo, corpo ed epilogo (“L’osteria dell’oppio”); altri appaiono come un esempio di come si possa giocare, con le parole, quando la padronanza della lingua è tale (“Cento parole: una storia”). Ogni racconto è un universo a parte, nel quale il denominatore comune è, senza dubbio, l’Amore. Chi conosce la scrittura di Stefania Convalle sa anche che il suo raccontare l’amore non è quasi mai una fiaba principesca dalle tinte rosa antico: le esperienze che porta al lettore sono forti, dense di significato e di sfide, di coraggio, di dolori taglienti, di perdite e di amicizia, di amore per la scrittura, di famiglia convenzionale o meno, del rapporto con gli Altri (adulti o piccini). Questo è “Dentro l’Amore”: una testimonianza autentica del sentimento più famoso al mondo.

Infine, la nota gastronomica che, in questo insieme, ha la forza di un’àncora: i bicchieri di whisky sono necessari per accompagnare un sogno nel quale la protagonista del primo racconto deve credere; il tè bollente – dal sapore deciso – è una rivelazione per la protagonista del racconto “Tutto in una stanza”; una “cena leggera e del buon vino rosso” sono entrambi complici dell’amicizia che nasce tra Elisa e Sofia, due donne che mi hanno commossa, durante la lettura del racconto intitolato “Verde Pistacchio”.

Difficile trovare una conclusione degna di questo nome, e che possa essere adatta a rappresentare l’opera, perché l’autrice è entrata davvero nella profondità del sentimento a cui il titolo fa riferimento. Non c’è modo di evitare il viaggio né il percorso che lei ha creato per il lettore e questa capacità crea una fortissima empatia. Una lettura a tutto tondo, insomma, che vale la pena.

Consiglio di lettura: per la sua notevole quantità di stili di scrittura, consiglio “Dentro l’amore” a chi vuole imparare; per la sua innata capacità di scendere nel profondo, inoltre, è una lettura che vi permetterà di avvicinarvi alle tante forme di amore, alcune delle quali, forse, non avreste mai considerato.

Si ringrazia l’autrice per la copia cartacea in omaggio.     

Nota biografica dell’autrice:

Stefania Convalle ha al suo attivo numerose pubblicazioni: romanzi, poesie, opere sperimentali a più mani e un manuale di scrittura. Tra i riconoscimenti più importanti, il Premio Giovani “Microeditoria di qualità”: nel 2017 con il romanzo “Dipende da dove vuoi andare” e nel 2018 con “Il silenzio addosso”; entrambe le opere sono state presentate nel programma “Milleeunlibro” di Rai Uno. Nel 2020 “Anime Antiche” si aggiudica il “Marchio della Microeditoria”.

Scrittrice, organizzatrice di eventi culturali, ha fondato il Premio Letterario “Dentro l’amore”. Writer Coach, Talent Scout, Stefania Convalle è anche editrice dal 2017, anno di fondazione della Edizioni Convalle, “una casa editrice col cuore d’autore”, come ama definirla.

Il sito dell’editore è: www.edizioniconvalle.com

Post in evidenza

“Anime” di Maria Cristina Buoso, Lettere Animate Editore.

Nella botte piccola c’è il vino buono” recita un antico proverbio che, sembrerebbe, sia nato nell’ottocento, quando i viticoltori si resero conto che il vino più aromatico nasceva da un più stretto contatto con il legno. Insomma, minore era lo spazio più grande era il risultato. Un detto semplice ma significativo, perché a volte perdiamo di vista l’essenziale e ci troviamo a navigare in uno spazio grande che ci disorienta. In letteratura, l’essenziale è giudicato un valore, un sinonimo di maestria e tecnica. Quando ho iniziato la lettura di “Anime” di Maria Cristina Buoso, edito da Lettere Animate, il primo pensiero è caduto proprio sulla brevità dell’opera: si tratta infatti di circa ottanta pagine. Un’altra curiosità, che mi ha colpita prima di iniziare la lettura, risiede nella copertina: c’è una farfalla in primo piano, il cui corpo e le cui ali sono divise a metà e, per questo, la scala cromatica delle due sezioni cambia del tutto. Il lato destro a colori, il sinistro in bianco e nero; nel primo si coglie la bellezza e la luce, nel secondo un’ombra piuttosto esplicativa. Nel simbolo – la farfalla, appunto – io ho visto la libertà, il volo, l’aria. Tuttavia, l’effetto specchio nella forma ma non nel colore ha messo in evidenza una sorta di oscurità obbligatoria con la quale, è stato evidente, il lettore si sarebbe scontrato.

Nelle prima fasi della lettura è apparso lo stile narrativo che ha coinvolto l’intera opera. Si tratta di una scrittura intima, personale, affidata alle parole dei protagonisti, come una sorta di diario. Si tratta di una famiglia composta da padre, madre e figlia che s’imbatte in un cambiamento radicale tutt’altro che semplice. Angelo è l’anima che deve affrontare la parte di sé che ha messo a tacere tempo addietro: è un avvocato, ed è nell’ambiente lavorativo che avviene la sua svolta, inaspettata ma travolgente. Quando il processo inizia, subentra anche la voce spezzata dei suoi affetti più cari che esplode con rabbia e dolore. È un lutto vero e proprio perché una parte di Angelo se ne andrà per sempre.

L’analisi di questa lettura non è facile perché l’autrice – attraverso la presenza costante dei suoi personaggi – guida il lettore in una discesa ardua. La rabbia, l’incomprensione, la diversità, la paura, il cambiamento, l’affetto e l’amore sono sentimenti ed emozioni che traspirano con forza e precisione. La sfera temporale è creata su un breve passato che estrapola i fatti salienti e, nel presente, c’è un’abbondanza di riflessioni, domande, insicurezze, vuoti che stentano a riempirsi. Anche dell’ambientazione geografica si saprà poco o niente e, in questo caso specifico, mi è parsa una buona scelta proprio per trattenere il lettore nella sfera emotivo-sentimentale.

L’universo femminile è marcato, analizzato con precisione, così come il mondo della coppia: è un ulteriore viaggio molto intimo e coinvolgente, a tratti commovente.

La sfera gastronomica, nel contesto generale, è molto esplicativa. L’autrice ha affidato al (giovane) Angelo il ruolo di panettiere: il pane, nella sua semplicità, è considerato l’alimento base, comune, ma essenziale, appunto. Un elemento di indiscutibile valore che aggiunge significato alla sintesi di cui si accennava in premessa e che gioca un ruolo di semplificatore nella complessità che è dentro il personaggio Angelo.

Infine, “Anime”, per le caratteristiche citate, ha tutte le caratteristiche de “il vino buono”: un concentrato di intensità e dolcezza, novità e passato, amore e pazienza, cambiamento e solidità.

Consiglio di lettura: “Anime”, pur essendo un libro “breve” contiene molti significati: uno fra tutti il coraggio di accettare sé stessi. Si consiglia ai lettori che hanno necessità di ritrovare coraggio, a chi teme che il giudizio altrui sia l’unico metro di misura, a chi ha bisogno di ritrovare la speranza.

L’ultima nota la voglio riservare alla nobiltà che ha dimostrato l’autrice nell’affrontare un tema così delicato con precisione, attenzione e infinita dolcezza.

Si ringrazia l’autrice per il file lettura in omaggio.

Nota biografica dell’autrice:

Scrive le prime cose quando era giovanissima, inizia con fiabe e poesie, crescendo amplia la sua scrittura con racconti brevi, copioni, romanzi e gialli.

La poesia “Aiutami” è stata inserita nell’Antologia Multimediale “Una poesia per Telethon”, a scopo benefico (2004). La poesia “Pace in Guerra” nel concorso indetto da A.L.I.A.S.  (Melbourne – Australia), ha ricevuto la Menzione D’Onore. La poesia “Bugie” (Stones of Angles) è stata inseritanel Vol. 6 – In Our Own Words: A Generation Defining Itself – Edited by Marlow Perse Weaver U.S.A. (2005).

Ha vinto il terzo premio nel Concorso Letterario “Joutes Alpines” dell’Associantion Rencontres Italie Annecy (Francia) per la Sez. Prosa (Italia) con il racconto “Il vecchio album” (1997). Questi sono solo alcuni dei vari riconoscimenti che ha ricevuto.

Ha pubblicato diversi libri, nel 2017 “Anime” e nel 2021 Vernissage.

I suoi contatti social & blog sono:

https://mcbuoso.wordpress.com/

https://www.instagram.com/mcbmipiacescrivere/?hl=it

https://www.facebook.com/groups/366743647118908/

L’autrice ci informa che il libro è disponibile su Amazon e Youcanprint.